
C’è stato un tempo in cui lo sport era solo merito, agonismo e bandiere. Un tempo in cui i videogiochi erano evasione, fantasia e perché no un po’ di goliardia. Poi è arrivata la religione woke e con essa una lunga lista di regole non scritte, pretese ideologiche e riscritture grottesche. Oggi, tra inclusività esasperata, transgender e uomini quasi costretti a scusarsi per essere maschi bianchi (e magari anche ricchi), il cortocircuito è servito.
Storicamente regno dell’equità, lo sport è diventato terreno fertile per l’ideologia fluida. Lo sappiamo: basta dichiararsi donna per competere nelle categorie femminili. Il risultato? Atlete costrette a vedere anni di sacrifici annientati da chi biologicamente resta un uomo. E se ti azzardi a porre una domanda sei “transfobico”, anatema peggiore della sconfitta.
Dal ciclismo al nuoto, passando per l’atletica: di casi ne abbiamo visti tanti, troppi. Ma la cultura woke è andata anche oltre. Basti pensare a quanto accaduto alla formazione di NFL dei Redskins. O meglio, quella che fino al 2022 era conosciuta come la compagine dei Redskins. Sì, perché sono costretti a farsi chiamare Commanders. Il motivo? Redskins – ossia pellerossa – è considerato offensivo nei confronti dei nativi americani. Robe da pazzi.
La vicenda ha acceso il dibattito in rete ed è intervento anche il presidente americano Donald Trump. Per il tycoon la squadra “acquisterebbe molto più valore economico” se tornasse al nome originario e non ha lesinato minacce nei confronti della società: "Sto valutando di imporre loro una restrizione: se non ripristineranno il nome originario di Washington Redskins e non elimineranno il ridicolo soprannome Washington Commanders, potrei bloccare l'accordo per costruire lo stadio a Washington".
Il capo della Casa Bianca è uno dei principali avversari – nonché obiettivi – della religione woke. Sin dal suo ritorno alla presidenza a stelle e strisce, Trump ha dichiarato guerra alla cultura del risveglio a suon di ordini esecutivi. Ma c’è ancora tanto da fare per combattere certe storture, certe follie iper-progressiste che danneggiano tutti, buonsenso compreso. In alcuni casi la storia è più forte delle castronerie, emblematico il caso del Lewes Fc, squadra britannica ultra-woke diventata famosa per essere stata la prima a prevedere stipendi uguali per donne e uomini. Ebbene, oggi il Lewes Fc sta fallendo: il modello non è sostenibile.
Il mondo dei videogiochi non se la passa tanto meglio. Negli ultimi anni il woke ha lanciato l’assalto anche ai videogames e uno dei casi più clamorosi è quello di “Campo minato”. Il celebre rompicapo lanciato nel 1990 ha intrattenuto milioni di ragazzini: lo scopo è ripulire un campo minato senza fare esplodere le mine. Ma da qualche tempo il gioco non si chiama più “Campo minato” ma “Prato fiorito”. Il motivo? Il politicamente corretto. Dopo l’11 settembre 2001, infatti, è stato bandito qualsivoglia termine legato alla guerra ed ecco la svolta “fondamentale”: “Campo minato” è ora “Prato fiorito”. Mancano solo i gessetti colorati e le bandierine arcobaleno.
I videogiocatori non sono però disposti a farsi andare bene tutto. Emblematico il caso di “Concord”, che ha sbandierato l’inclusività come suo cavallo di battaglia ed è stato un disastro commerciale senza precedenti. Ma non solo. Qualche tempo fa il team Steam Woke Content Detector ha diffuso un elenco di videogame senza contenuti woke, segnalando i giochi da evitare: da “Starfield” a “Final Fantasy VII” (pieno di messaggi ecologisti), la lista ha fatto discutere ma testimonia il malcontento per l’imposizione dell’ideologia “corretta”.
Se negli anni Novanta un videogioco era un rifugio anarchico, oggi è un campo di rieducazione progressista. Gli sviluppatori inseriscono personaggi “non binari”, dialoghi infarciti di pronome neutro e nemici rigorosamente “maschi etero e oppressori”. C’è chi modifica giochi storici per “correggere stereotipi”, chi elimina gesti o costumi considerati “culturalmente inappropriati”, e chi – come Blizzard – organizza eventi dedicati al “Pride Month” virtuale.
Nel nome dell’inclusione, tutto è diventato fragile. Anche il mondo IT non può dirsi al sicuro: basti pensare che non si può parlare più di “black” o “white” list, ma esclusivamente di “inclusive list”. Lo zenit della stupidaggine.
E attenzione anche all’intelligenza artificiale, con i chatbot fondati sulla politica iper-inclusiva di sinistra. Anche in questo caso Trump è pronto alle contromisure, con il taglio dei contratti governativi alle società con un’AI “politicamente schierata”.