Società

"Google sostiene il patriarcato". L'assurda tesi femminista

Una ricercatrice italiana intervistata dalla Stampa lancia l'indignatissimo allarme: "L'algoritmo di Google riproduce il sessismo di chi lo utilizza"

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Attenzione, il "patriarcato" è a portata di clic. Adesso pure Google è sotto accusa: il suo algoritmo - leggiamo sulla Stampa - è "sessista". Il quotidiano del gruppo Gedi rilancia l'indignatissimo allarme, basato sulle osservazioni di Lilia Giugni, docente all'University College London, ricercatrice all'Università di Cambridge e attivista per i diritti delle donne. Secondo la giovane autrice, il presunto sessismo del popolare motore di ricerca si riscontrerebbe proprio a partire dalla funzione di auto-completamento prevista per facilitare gli utenti.

"Allenato sulle ricerche precedenti dell'utenza, l'algoritmo di Google riproduce il sessismo di chi lo utilizza. Ma rischia anche di diffondere ulteriormente atteggiamenti patriarcali", ha avvertito Giugni. In sostanza, stando alla tesi della ricercatrice, se uno abbozzasse una ricerca online su quello che gli uomini e le donne "devono fare", l'algoritmo dalla multinazionale informatica gli restituirebbe suggerimenti di ricerca discriminatori e zeppi di maschilismo, ispirati alle più frequenti query. Le piattaforme, ha sentenziato al riguardo la docente, "non intervengono come dovrebbero".

Ma utilizzare le ricerche di Google come un parametro per misurare le discriminazioni sociali ci sembra - con tutto il rispetto - un approccio quantomeno opinabile. Anche perché una ricerca non corrisponde necessariamente (e per fortuna) a un comportamento sbagliato. E peraltro, ci risulta difficile pensare che un motore di ricerca possa diventare un luogo in cui si stigmatizzano eventuali convinzioni biasimevoli, a meno che si voglia attribuire un compito pedagogico-formativo (in base a quali parametri, poi?) a uno strumento di servizio. Convince poco anche il sospetto che Google favorisca indirettamente il patriarcato, anche perché la piattaforma non perde occasione per veicolare messaggi sull'inclusione in salsa woke.

"Le tecnologie digitali, algoritmiche o meno, di per sé non sono né buone né cattive, ma nemmeno possono dirsi neutrali, visto che incorporano nel loro funzionamento i valori e purtroppo anche le disuguaglianze delle società in cui sono prodotte", ha argomentato ancora Lilia Giugni sulla Stampa. E ancora: "La tecnologia acutizza le ingiustizie di genere e il sistema economico ne sta approfittando. Basti pensare a come le piattaforme social monetizzano comportamenti digitali violenti, o al grande business della diffusione non consensuale di immagini intime sui siti pornografici". In quest'ultimo caso, tuttavia, ci troviamo di fronte a un reato vero e proprio che giustamente in Italia è già perseguibile ai sensi di un'apposita legge.

Allo stesso modo, offese, molestie, discriminazioni e cyberbullismo attuati nelle chat o sui social network si possono (anzi, si devono) denunciare e sarebbe piuttosto opportuno diffondere una maggiore consapevolezza al riguardo in chi frequenta la rete, tra i giovanissimi e nelle scuole. Vedere il "patriarcato" ovunque, spesso anche dove non c'è nemmeno, ci sembra piuttosto un atteggiamento che rischia di creare confusione e di ottenere risultati controproducenti.

La caccia alle streghe, sul web come nella realtà, non porta mai a nulla.

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