Cronaca locale

«Sogno una grande alleanza per Milano»

«Sogno una grande alleanza per Milano»

«Milano ha bisogno di qualcosa di diverso. Di una nuova politica che non sia solo partiti, ma che risponda direttamente alla società. Alle sue esigenze e ai suoi problemi». Dolcevita nero sotto la giacca gessata, gli orecchini grandi e preziosi. Letizia Moratti lascia i panni del ministro e indossa quelli del candidato del centrodestra. Alle pareti le stampe, al di là delle finestre del suo quartier generale c’è piazza San Babila. Con la gente che come sempre corre. Qualcuno lo chiama spirito ambrosiano, altri una dannazione.
Ministro Moratti, perché sindaco di Milano?
«Sono milanese e ho deciso dopo aver pensato a cos’è diventata oggi la mia città».
E cosa ha scoperto?
«Una società aperta, flessibile, creativa che ha ormai superato le differenze fra destra e sinistra».
E quindi?
«Quindi dev’essere la gente che chiede e non la politica che impone. Qui sono nati il riformismo ambrosiano, il rinnovamento cattolico, l’Illuminismo dei Verri e di Beccaria, lo spirito federalista di Cattaneo, il liberalismo di Manzoni, Testori, Parenti».
Un albero genealogico da paura. Ma cosa c’entra con la campagna elettorale?
«Da qui nasce il mio progetto per Milano. Non un modo d’essere della politica, ma della società. Una domanda che sale dalla gente e interpella la politica».
Quale domanda?
«La richiesta di abbandonare la logica dei partiti. Sempre di corto respiro».
C’è una ricetta Moratti?
«La politica sia difesa del bene comune. E il bene comune non è né di destra né di sinistra. Oggi più che mai abbiamo bisogno di superare gli schieramenti».
Più società civile e meno partiti?
«Lo ripeto, il solo obiettivo di chi governa dev’essere il bene comune. Prima bisogna essere al servizio della città».
Ha fatto un certo rumore la sua intenzione di portare in giunta forse anche assessori targati centrosinistra.
«Questa è la visione che ho del governo della città. E questo sarà il mio nuovo modo di fare politica, sceglierò sempre le migliori personalità indipendentemente dal colore. Non ho mai chiesto a chi lavora per me per chi voti».
Un metodo che deve valere anche fuori dalla giunta?
«Certo. Milano deve puntare sulle professionalità che più sono in grado di eccellere».
Perché proprio Milano dovrebbe incarnare questo progetto?
«La nota che la distingue da sempre è il senso civico».
In concreto?
«La capacità di interpretare la vita civile e sociale come fatta di diritti e di doveri. Serve una grande alleanza tra il mondo produttivo e le istituzioni per il bene dei milanesi e di chi arriva a vivere in questa città. Nel passato questo a Milano ha prodotto l’asilo Mariuccia, le Stelline, la Cà Granda. Grandi opere sociali, assistenziali e culturali».
Solo nel passato?
«Il senso civico, il desiderio di spendersi per la città si è un po’ affievolito oggi nella borghesia. Grave perché lì ci sono le risorse».
Rimedio?
«Bisogna far sentire una maggiore responsabilità. Dobbiamo ripartire da un progetto che dia di nuovo forza allo spirito civico. Questa assenza provoca anche un pericoloso vuoto culturale».
Si dice che Milano sia la capitale della solidarietà.
«Spesso il senso civico è molto forte in singole persone, associazioni di giovani o volontariato che non sempre hanno i mezzi».
Da dove si riparte?
«Restituendo la voglia di riappropriarsi della propria città. Un progetto che liberi risorse ed energie, che faccia rivivere Milano, la faccia sognare. Che convinca tutti che questa è una città in cui non è solo bello lavorare. Ma anche vivere».
E lei che Milano sogna?
«Una Milano ricca, ma anche capace di ridistribuire le ricchezze. Una città solidale con tutti quelli che hanno bisogno, ma anche capace di accogliere chi arriva qui per vivere e lavorare».
Cosa serve?
«Un metodo, un progetto che non veda in Palazzo Marino il solo detentore del bene comune della città».
Ha già qualche idea?
«Il progetto si deve fondare su due cardini. Serve una regia che in questo momento manca, qualcuno che coordini le eccellenze dei diversi settori culturali, scientifici, sociali. Ora non sono coordinati, non fanno sistema e alla fine non sono valorizzati».
Secondo cardine?
«Vedo un Comune che gestisce e basta. Senza valorizzare la sussidiarietà dei corpi intermedi, un mondo ricchissimo. Il prossimo sindaco dovrà liberare le energie e facilitare la collaborazione tra istituzioni e cittadini».
Il suo primo incontro con il diessino Filippo Penati, presidente della Provincia, è andato piuttosto bene.
«Ci sono tematiche importanti che non possono essere risolte solo dal sindaco, ma vanno affrontate dalle istituzioni insieme. Credo molto in una collaborazione che vada al di là del colore politico».
Prima le mail al sito, dopo il giro nei quartieri. Di cosa soffrono i milanesi?
«Casa, mobilità, infrastrutture, sicurezza».
Come si curano?
«Superando la logica dell’emergenza. Con la progettualità, una visione d’insieme, il collegamento fra istituzioni».
C’è poi il problema delle risorse. Dopo i tagli, dove si trovano i soldi?
«Ci sono molte altre fonti. Penso alle leggi regionali per i contratti di quartiere con cui si possono riqualificare intere zone e costruire case. E poi la Legge obiettivo, l’Unione europea che dal 2007 destinerà direttamente ai Comuni i fondi strutturali, i soldi della Banca europea degli investimenti destinati alle infrastrutture materiali e immateriali come il capitale umano e la ricerca».
Nessuna paura di rimanere con le casse vuote?
«No. Assolutamente no».
I provvedimenti dei suoi primi cento giorni?
«Risolvere i piccoli problemi quotidiani della gente. Il semaforo che non c’è, la strada poco illuminata, le strisce pedonali. Cose che cambiano la vita a molte persone».
Altro?
«Il rilancio nazionale e internazionale di Milano».
Con quale marchio?
«La città che sa trasformare le idee in progetti».
I rapporti tra occidente cristiano e Islam sono sempre più tesi. A Milano ci sono viale Jenner, la moschea, il centro culturale islamico. Come si coniugano sicurezza e integrazione?
«Anche qui bisogna uscire dalla logica dell’emergenza. La sicurezza è un bene della città».
Nei fatti?
«Prima di tutto bisogna far rispettare le regole. E poi garantire una vita degna a chi vuol rispettarle. Ritorno alla legalità e capacità di dar risposte a chi sceglie Milano».
Ma la sicurezza di chi è compito? C’è stato un piccolo battibecco con il candidato di centrosinistra ed ex prefetto Bruno Ferrante.
«Nessun battibecco. Ho solo detto che la responsabilità della sicurezza è del prefetto. Casomai al sindaco toccano gli aspetti sociali legati alla prevenzione».
Traffico?
«Il Comune deve avere un ruolo diverso dal passato. Le grandi opere non possono essere pensate all’interno di progetti locali, urbani. La politica delle infrastrutture va gestita con una logica integrata. Pensando ai Comuni limitrofi, a Torino e Genova, a Brescia e agli aeroporti».
Pensando anche all’Atm?
«Non ha senso che sia solo in mano al Comune. Devono partecipare anche Provincia e Regione».
Possibili benefici?
«Tariffe integrate, servizi diretti dalle periferie al centro, orari più funzionali. Anche qui è una questione di coordinamento, di regia».
Sarà un sindaco-ministro o un sindaco-sindaco?
«Quelli sono solo nomi, le etichette mi fanno paura. Io sono sempre io».
E come è lei? Non la spaventa un nuovo ruolo?
«Nella mia vita ho sempre avuto ruoli inediti. Non ho mai smesso di cambiare e sono sempre stata libera. Mai ho dovuto rispondere a qualcuno per le mie scelte».
E perché adesso Milano?
«Torno a casa».
Presto ci sarà il primo faccia a faccia tivù con Ferrante. Fosse un giornalista cosa gli chiederebbe?
«Perché ha scelto di candidarsi in una città di cui è stato prefetto».
Quando il programma?
«Dopo le elezioni politiche».


Sarà sintetico, tipo i cinque punti del contratto con gli italiani o come le 281 pagine dell’Unione?
«Sicuramente non saranno 281 pagine».

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