Gilad Shalit è sotto le sabbie di Gaza, sepolto vivo, guardato a vista dai carcerieri tumulati assieme a lui nel bunker senza uscite. Trovarlo è come cercare un ago nel pagliaio. Tirarlo fuori vivo, una volta scovato, sarebbe un azzardo anche per i più addestrati commandos israeliani. Ma suo padre Noam Shalit è pronto a tutto. Anche a una contrattazione privata se il governo continuerà a rifiutare la trattativa. «Ogni cosa ha il suo prezzo, è assurdo pensare di riportare a casa Gilad senza pagare qualcosa, in Medio Oriente non funziona così», è sbottato giovedì esasperato dai no del governo. Poi ha lanciato il suo messaggio ufficiale. «Sono pronto a parlare con i rapitori, non ho nulla da offrire, ma possiamo discutere. Alla fine - si è giustificato - è con loro che direttamente o indirettamente bisogna parlare».
Ma papà Noam un abbozzo di negoziato lavrebbe già lanciato. Parlando incessantemente ai microfoni di Radio Voce della Pace, sulle cui frequenze si confrontano esponenti palestinesi vicini al braccio armato di Hamas, Noam avrebbe aperto un dialogo. Lui nega. Insiste di voler solo «far passare un messaggio a chiunque sia disposto ad ascoltarlo». Ma poi un suo appello ad Hamas suona come un consiglio ai vari esponenti dellorganizzazione le cui diverse, incompatibili e assai spesso impraticabili richieste fanno impazzire la squadra di mediatori arrivata dal Cairo. «Mi appello a loro - dice il padre del caporale 19enne - perché passino le loro proposte discutendo con gli egiziani e non inviando messaggi su internet o distribuendo volantini. Devono fare richieste serie, che Israele possa discutere senza perdere la faccia. Imponendo umiliazioni non arriveranno al punto».
Fino a giovedì Noam Shalit aveva sperato nella trattativa. Poi il mondo gli è crollato addosso. Prima i gruppi armati annunciano la fine del negoziato motivandola con gli inflessibili rifiuti israeliani. Poi arrivano le voci sulla prigione del figlio. Trapelano dai mediatori, dagli informatori, dal medico palestinese che gli ha ricucito le tre ferite allo stomaco e alle braccia. Parlano di un bunker, di una fossa angusta e buia scavata nella sabbia. Gilad è lì sotto dal 25 giugno guardato da un gruppo di carcerieri pronti a trasformare la prigione in una tomba collettiva. Chi ha pianificato il rapimento, dicono le voci, ha studiato come evitare i trasferimenti di acqua e cibo che di solito allarmano gli informatori e richiamano le forze speciali israeliane. Quella prigione è una tomba.
Anche cercando gli irreperibili dal 25 giugno le spie dIsraele non troverebbero nulla. I guardiani di Gilad erano già latitanti, uomini braccati, abituati a vivere lontani dalle famiglie. E nessun risultato è arrivato dai sofisticatissimi sistemi di ascolto che il generale Aviv Cochavi, responsabile delle operazioni a Gaza, ha piazzato a Dahaniyeh, tra le piste distrutte del vecchio aeroporto di Arafat. Dai telefonini, dalle radio palestinesi non trapela una sola traccia capace di condurre a Gilad. E anche scoprendo quel buco di prigione bisognerebbe avere la certezza di tirarlo fuori vivo.
Le ragioni di Noam ieri sembravano aver fatto breccia nella granitica risolutezza del governo Olmert. Avi Ditcher, un ex capo dello Shin Bet oggi ministro della Sicurezza interna, ammetteva la possibilità di uno scambio di prigionieri. «Labbiamo fatto in passato in cambio di ostaggi e di uninterruzione delle ostilità
Se ci sarà un po di calma è possibile ipotizzare un rilascio di prigionieri in cambio della fine dei lanci di missili Qassam». La proposta implica prima la liberazione dellostaggio e successivamente la liberazione di tutte le detenute palestinesi e dei prigionieri in carcere da oltre ventanni.
Ma Hamas non si fida, e ieri sera ha accusato Israele di rifiutare «la legittima richiesta di uno scambio di prigionieri in cambio del rilascio di Shalit».
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