Un altro ragazzo impiccato in camera sua. Un quindicenne. Stavolta a Torre del Greco. Ultimamente, quando capita di raccontare queste storie enormi, cercando sommessamente di capirci qualcosa, arrivano subito in redazione lettere e messaggi di questo tenore: basta con le sedute psicanalitiche, basta con le elecubrazioni sociologiche, certe tragedie sono sempre avvenute, l'unica differenza è che adesso se ne parla, in passato no. Personalmente, lo confesso, mi lasciano più sgomento queste lettere, queste reazioni di italiani per bene, che il gesto stesso di questi giovanissimi naufraghi della vita. Loro, evidentemente, arrivano al capolinea in stato confusionale. Noi no. Non dovrebbe sembrarci tempo perso, o amore di chiacchiera, cercare per un momento di leggere più a fondo il crudo fatto di cronaca. Per cui, nessuna esitazione: dobbiamo provarci pure stavolta. Anche se qualcuno immancabilmente dirà che un ragazzo impiccato ogni tanto costituisce soltanto una componente fisiologica, per quanto dolorosa, della storia umana.
Il bravo ragazzo della terza A, studente apprezzato all'istituto nautico Cristoforo Colombo, figlio di buona famiglia - lui dipendente comunale, lei medico -, si porta dietro un finale che non può lasciare impassibili: per giorni, ha lanciato i suoi malinconici e disperati Sos in quell'oceano di amicizia portatile chiamato Facebook. Neppure qui ci si può limitare semplicemente a registrare il dettaglio: diamine, i gesti e le parole avranno pure un significato, avremo pure il dovere di approfondire, o invece tutto è piatto e uguale, scontato e inevitabile, una cosa vale l'altra, passiamo oltre perché questa purtroppo è la vita?
Questa sarà anche la vita, ma neppure nei tempi più tenebrosi può sembrare normale che un ragazzo di quindici anni avverta della sua tremenda decisione, annunciandola con un macabro count-down, senza sollevare il minimo allarme in nessuno. Facebook si presenta come un mezzo Eden dell'amicizia, dove ciascuno si circonda di persone care, simpatiche, fidate, quasi un serraglio personale di buoni sentimenti e di calde relazioni, a dispetto di quel mondo reale, là fuori, dove non è più possibile instaurare un rapporto decente e tanto wow. E pazienza se sempre più spesso il vero fondamento di Facebook stia diventando il puro dato statistico, ho duecento amici, trecento amici, mille amici, come una raccolta punti dell'Agip con il premio finale della propria affermazione sociale. Tanti amici, tanto successo, tanta autostima. Perfetto, ragazzi: continuiamo a misurare il nostro peso nel mondo dalla classifica Facebook. E poi vediamo quanto resta. Nessun imbarazzo a riconoscerlo: qualcuno di noi, qualcuno di voi, forse ancorato a un altro mondo, continua pervicacemente a pensare che nella vita possa bastare un amico solo, purché vero, purché presente, purché capace di dire la cosa giusta al momento giusto. O di non dirla. Ma guardando negli occhi.
Invece: nel magico e incantato mondo di Facebook, il quindicenne Carlo scrive addirittura «Sto arrivando all'Aldilà» e nessuno avverte la pena di chiedergli perché, in che senso, ma cosa dici. All'oratorio, o in piazza, o davanti a un chinotto, forse l'amico del cuore in carne ed ossa queste cose gliele avrebbe dette, anche solo per mandarlo al diavolo e scuoterlo decisamente, via, piantala di macerarti e vediamo piuttosto di trovare un aiuto, perché secondo me in questo momento ne hai davvero bisogno. Nell'amicizia statistica di Facebook - trecento, quattrocento, quattromila amici - nessuno resta colpito da certi messaggi affissi «in bacheca», via computer. Non ne sanno niente i poveri genitori, non ne sanno niente i gruppi scout e i club dei tifosi che Carlo frequenta. Quel che scrive apertamente, a chiare lettere, come una terminale richiesta di soccorso, si perde nell'universo. A suicidio avvenuto, i compagni di classe così commentano: «Pensavamo si trattasse di una ricorrenza particolare, forse addirittura del compleanno (un amico in carne ed ossa sa sempre con precisione quand'è il compleanno, ndr). Mai avremmo pensato ad una cosa del genere».
Questa l'amicizia al tempo di Facebook. Nessuno ha una colpa specifica, perché così si muove il sistema. Non è proprio il caso di addossare a qualcuno la croce del rimorso. Però attenzione. Vediamo di non liquidare la morte di Carlo come un fusibile saltato - sì, fisiologicamente - nella complicata macchina umana. Stavolta non possiamo dire che «non c'erano segnali», come ci preme dire quasi sempre davanti a fatti tanto grandi. Carlo aveva lanciato segnali chiari e forti. In molti li hanno pure letti.
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