«Sono Freda, genio del male Ma sto bene solo in famiglia»

«Quand’ero piccolo, stranamente andava sempre via la corrente, se in tivù davano notizie angoscianti», racconta Giorgio Marchesi, sottolineando che i suoi genitori intendevano proteggerlo così dal male esterno. Adesso che ha 38 anni e un figlio, l’attore bergamasco di Un medico in famiglia diventa l’uomo delle trame nere con in testa il tarlo dell’eversione: Franco Freda, leader di estrema destra il cui nome evoca un’aura di fanatismo, almeno in chi aveva vent’anni nei Settanta di piombo. Nel film Romanzo di una strage, in uscita il 30 marzo e firmato da Marco Tullio Giordana, sempre attento alla storia del Bel Paese (I cento passi, La meglio gioventù), Marchesi sfoggia un’impressionante somiglianza fisica con chi, insieme a Giovanni Ventura, fu accusato di essere responsabile della strategia della tensione attuata in Italia dal ’69 al ’74. Inclusa la strage di Piazza Fontana, rievocata da Giordana in una cronaca romanzata.
Classe ’74, lei, Marchesi, non era ancora nato quando scoppiò la bomba di Piazza Fontana, a Milano, il 12 dicembre 1969. Come si è calato in Franco Freda?
«Per agganciarlo a un’immagine, ho pensato a un serpente. In particolare, a un boa constrictor ipnotico, di quelli che ti fissano mentre ti stritolano e tu non te ne accorgi».
Ha letto libri di Freda, o sul periodo stragista?
«La superiorità intellettuale di Freda mi ha colpito. Ho letto il suo libro La disintegrazione del sistema, dov’è notevole la lucidità con cui esprime idee estreme. E mi sono documentato, leggendo libri consigliati da Giordana. Ho soprattutto ricordato quanta impressione mi faceva, da ragazzo, leggere sui giornali certi nomi con accanto la foto e l’indirizzo... Gente indicata come “nemica”. L’idea che uno potesse trovarsi sotto casa cinque picchiatori mi stravolgeva».
Nella scena iniziale del film, Freda esce e va a comprarsi un timer: il suo personaggio è inquadrato come l’esecutore materiale della strage di Piazza Fontana?
«Il film non giudica, si limita a raccontare. E nemmeno io giudico il mio personaggio, per quanto interessantissimo. Seguo il motto di Giordana: “Il film è un’astronave che fa il suo viaggio”».
Per i più giovani, gli anni Settanta significano soprattutto pantaloni a zampa d’elefante e altri oggetti vintage. Per lei?
«Confesso: adoro i Settanta della musica funky e dei giubbotti di pelle. Mi piacerebbe tornare a quegli anni, però sapendo di poter cambiare qualcosa. La tecnologia ci sta portando a un isolamento marziano, mentre all’epoca la gente si abbracciava, si toccava, mangiava insieme».
Lei ha a che fare con l’eversione anche a teatro, dove allo Stabile di Torino, in Coast of Utopia di Tom Stoppard, ancora diretto da Giordana, se la vede con l’anarchico Michael Bakunin...
«Che meraviglia poter essere il grande scrittore russo Ivan Turgenev e leggere, per ragioni di lavoro, i suoi testi! Il bello di essere attori sta nell’educazione permanente: ho molte lacune da colmare. E poi stavolta si torna ai grandi allestimenti, con 33 attori in scena, un mare di costumi, una trilogia da sviluppare. Basta col teatro fatto di monologhi, o di due persone sul palco: è noioso».
Per ragioni familiari frequenta Berlino, dove vivono la sua compagna Simonetta Solder e vostro figlio Giacomo, che sta imparando il tedesco. Che cosa le piace della Germania, che l’Italia non ha?
«La massima cura per la prossima generazione. Da noi i giovani cercano di seguire i dettami dei più vecchi, in Germania è il contrario: la nostra gerontocrazia è eccessiva, non fa crescere».
Lei sembra piuttosto attivo. Non guadagna abbastanza?
«Qui a Torino lavoro al minimo sindacale per pura passione. Adesso è un momento buono, ma le paghe degli attori sono ridotte, come tutto il resto. A volte la paura è non avere lavoro. Per fortuna, resta una base solida: la famiglia».
Prima Un medico in famiglia, poi La grande famiglia su Raiuno, con Stefania Sandrelli.

È fissato?
«La tivù dà popolarità. Con la Sandrelli sarò Raul Rengoni, uno dei cinque fratelli d’una famiglia di imprenditori settentrionali. È la prima volta che, in tivù, si racconta una famiglia del nord alle prese con la crisi».

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