Ma sono le pallottole spuntate di uno che non è Malaparte

Era luglio. Conversando su Il passo delle oche, libro pensato per fare ammuina e colto retrobottega politico dalla casa editrice Einaudi, giunse un siluro inaspettato: «Se qualcuno lo legge tra quindici anni non capirà niente di quello che oggi sta succedendo nella destra italiana. È fatto bene, ma è un libro di regolamento dei conti». Balle. La solidità culturale di Alessandro Giuli è nota, da quando giovanissimo ex militante di Meridiano Zero cercava con cortesia lo spazio di una recensione per il suo periodico Kultur. Oggi questo frequentatore di Heidegger e Gentile e della Fondazione Evola è in forza a un quotidiano che qualche suo precedente commensale al desco del tradizionalismo potrebbe definire un organo del mondialismo capitalista ebraico-massonico. Ma tant’è, il Dasein riserva strane sorprese dietro l’angolo dell’ortodossia.
E dunque Il passo delle oche va preso per ciò che è: il prevedibile moto di disgusto impolitico per la destra politica dell’ultimo quindicennio da parte di un colto giornalista di estrema destra, dell’estrema destra che schifa la cultura di massa e la lezione nazionalpopolare del fascismo, e attraversa col naso tappato il decumano del presente per non mischiare la sua essenza con l’afrore della lotta nel castrum politico, tutt’al più concedendo di contaminarsi il pedigree con l’idea di una trasmissione Rai purtroppo abortita. Della storia di Alleanza nazionale e del milieu che ne ha accompagnato il percorso politico nulla si salva. Fa tutto schifo: a Gianfranco Fini nulla si perdona, ma nemmeno ai coprotagonisti, alle comparse, a un partito incapace di forgiare «una generazione di autentici politici di destra», al movimentismo giovanile, gettati in una storia ch’è polvere da buttare sotto il tappeto. Aver rimesso a posto gli assi dello scontro politico, tirando fuori dal congelatore qualche milione di voti e rischiandoli nella roulette infinita del governo di una nazione - certo, accogliendo la modernità berlusconiana e tralasciando il «fascismo pagano» e «l’eresia antroposofica», può succedere - questo non conta nulla.
E gli intellettuali di destra? Indecisi tra guelfismo e politeismo neodestro, tra il ribellismo e i riflessi sabaudi da destra d’ordine. Ancora peggio, si sono - ci siamo - permessi di ragionare sulla questione cruciale che una destra che non sa aprire canali di dialogo con l’industria culturale e non tenta di contaminare l’immaginario popolare può vincere la battaglia elettorale ma perde la guerra del consenso. Nemmeno questo piace.

Epperò, quando fai di tutta l’erba un fascio sbocconcellato e non sei Malaparte, devi dare soluzioni, indicare percorsi alternativi restando raso sul terreno della politica e della cultura politica (e delle citazioni corrette, visto che Giuli sbaglia due titoli su due dei libri di Veneziani citati). Sennò le pallottole si spuntano e resta il moralismo di quelli che Leo Longanesi, un altro che Giuli sputazzerebbe con l’inchiostro della penna, chiamava i carciofini sott’odio.

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