Nell'ultimo decennio, assorbiti i mutamenti di scenario determinati dalla fine della Guerra fredda, si registrano alcune simmetrie nelle politiche estere dei grandi Paesi europei. Dove le leadership sono forti, il ruolo del ministro degli Esteri è più diplomatico che politico. Dove i numeri uno sono fragili, i ministri degli Esteri spiccano da protagonisti. Con l'unità europea una bella fetta della classica politica interna (si pensi al peso della Bce) si è ristretta, e la politica estera è diventata il principale campo d'intervento dei «capi» più vivaci delle varie nazioni. Con Tony Blair, i Cook, gli Straw, la Beckett sono in seconda fila. Con José Maria Aznar, la fedele Ana Palacio. Ma anche con il successore José Luis Rodrigues Zapatero, il burocratico Miguel Angel Moratinos. Nessuno può negare la leadership berlusconiana nella politica estera italiana. E anche Lamberto Dini, con Massimo D'Alema a Palazzo Chigi, si può ben dire contasse assai poco.
Con lo spaurito Jean-Pierre Raffarin (e il logorato Jacques Chirac) il ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin era un protagonista, più di oggi che fa il premier. Gerhard Schröder, politico esperto e furbo ma dalla confusa visione generale, rivelatasi a pieno a fine mandato quando s'è impiegato da Vladimir Putin, non poteva che far rifulgere una personalità, formata in modo drammatico ma di spessore come quella di Joschka Fischer. Oggi che alla guida dell'Italia c'è il bolso rétore Romano Prodi, è evidente, in campo internazionale, il ruolo di D'Alema.
Tra i ministri degli Esteri glamour dell'ultima stagione, si nota qualche parallelo. D'Alema e Fischer hanno acquisito rango internazionale rompendo con il proprio passato politico: in modo meditato Fischer, il che gli ha dato solidità, morale e psicologica, superiore a quella del ministro italiano che ha compiuto il suo «tragitto» tra tante dissimulazioni. Un tratto comune lega anche de Villepin e D'Alema: un esibizionismo non trattenuto (un vecchio amico parla nel caso del titolare della Farnesina di «priapismo politico»). Entrambi sono parsi alla ricerca ansiosa di un protagonismo riparatore (quasi scomparso in de Villepin da quando è premier): il francese nella fase più intensa del dibattito sulla guerra in Irak, sembrava quasi voler infliggere umiliazioni agli Stati Uniti per compensare quelle che aveva subito al tempo dei suoi «disastrosi suggerimenti» politici a Chirac. C'è chi osserva come D'Alema si sia messo a buttarla in politica estera lo scorso autunno, assumendo posizioni antisraeliane, quasi a voler frenare l'aggressione che contro di lui si sviluppava pure dall'estrema sinistra sul caso Unipol.
Se si guarda ai risultati - ma è presto per giudicare la «nuova» Farnesina - Fischer ha fatto dapprima grandi cose, soprattutto nei Balcani, poi l'antiamericanismo (moderato) di Schröder, l'ha demotivato. De Villepin è stato un dominatore della politica internazionale: la sua oratoria ha contribuito a isolare Washington. Salvo assistere, oggi, da premier, al prevalere dei più atlantici Nicolas Sarkozy e la semiblairiana Ségoulène Royal, probabili candidati alle prossime presidenziali.
D'Alema ha più handicap delle altre due star: una maggioranza piena di estremisti, un partito quasi allo sbando, un alleato (la Margherita) che lo considera ingombrante.
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