nostro inviato a Francoforte
Il cielo grigio è il quadretto di una nazionale. E dietro di essa un frusciante formicaio pieno di attivismo e attività, con quelleterno clima di lavori in corso (e in corsa) che poi è il simbolo della vigilia di ogni grande manifestazione sportiva. Chissà se saran sospiri o solo dolori. Chissà se il Paese che ha regalato geni come Einstein e Kant, Marx e Beethoven potrà ora accontentarsi di Ballack, Klose e Lehman. I tedeschi erano abituati meglio. Anche nel pallone: Fritz Walter e Beckenbauer, Netzer e Schuster, Overath e Seeler, Rummenigge e Muller, Bonhof e Stielike, Breitner e Matthaus. Basterebbe aver con sé perfino Rudy Voeller per farli sentire un po più grandi, un po più tedeschi, un po più padroni di questo mondiale in cui aprono le porte di casa, ma forse non riusciranno a chiudere le porte sul campo.
Il mondiale tedesco e dei tedeschi si allunga nella nouvelle cuisine del suo pallone e dei suoi pallonari. Jurgen Klinsmann ha fatto sobbalzare tutti dalla sedia con quel modo strampalato di fare il ct. Quelleterno proporre «io sogno California» mentre i suoi connazionali sognano soltanto la finale del campionato del mondo. Dice un sondaggio che almeno il 47 per cento dei tedeschi si attende di vedere la Panzerdivision il 9 luglio a Berlino, notte della finale.
Il cielo grigio non è solo il quadretto di una nazionale, cè molto stato danimo di una nazione: disoccupati e bilancio, tasse pesanti e pensioni leggere, vita dura e Angela Merkel fanno tenere il muso lungo. E allora perché non lanciarsi nelloblio, dietro le follie creative di quel pazzo cavallone biondo che in campo usava la fantasia per sbagliare gol e oggi cerca di instillare un po del suo sangue naïf in una cigolante corazzata calcistica. Negli ultimi sedici anni la Germania ha sommato un primo e un secondo posto. Dal mondiale italiano del 1990 una sorta di maledizione si è appostata dietro il suo angolo. Nonostante il secondo posto del 2002, ottenuto con una squadra calcisticamente molto proletaria. Cè la voglia di ritrovare quella vena che tutto il mondo definiva «carattere tedesco», che è sempre quello dove ti porta il cuore ma inteso nel senso meno romantico del termine. Anche se Luis Cesar Menotti, gran generale dellArgentina campione del 1978, diceva essere superficiale e stupido ridurre tutta la grandezza del calcio tedesco a una questione di carattere.
In questo mese la nazione, appostata nel cuore dellEuropa economica e politica, cercherà di ritrovare il suo posto nel cuore del mondo. Ci riproverà dopo i mondiali del 1974, accogliendo il variopinto circo del pallone e mostrando bellezze per ora paesaggistiche: i grattacieli di Francoforte, il castello di Norimberga, il giardino reale di Hannover, la rivoluzione strutturale di Berlino. E qualche ricordo del passato. Orgogliosa delle nuove cattedrali del pallone. Millecinquecento - 1500 - milioni di euro per ritrovarsi nei colossei moderni, lo stadio Olimpico di Berlino come sintesi degli ultimi 70 anni di storia tedesca. In questo contesto si inserisce una nazionale che sembra la figlia poverella di quelle del passato. Daccordo cè Ballack, lunico insieme a Lehman, ambito dalle squadre di altri campionati. Eppure, in tempi neppur troppo lontani, partivano dalla Germania charter di giocatori con destinazione Europa. E noi in Italia ne sappiamo qualcosa.
Oggi giovani e anziani sono tutti in ginocchio da Ballack, che non è un leader e nemmeno ha la pretesa di esserlo. Per qualcuno è già diventato un traditore, avendo preferito la sterlina ai sogni di gloria con il Bayern, icona scolorita di una tradizione calcistica. Ma questa scelta è il segnale che la storia del pallone tedesco dovrà affannosamente aggrapparsi alla sua nazionale, diventata un po cenerentola.
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