Paolo Giordano
nostro inviato a Londra
«Scusi, posso continuare?». Ma prego, buon appetito. James Morrison mangia con la voracità di un bambino, un boccone dietro laltro, e gli occhi sorridono come quelli di Oliver Twist alla mensa degli orfanelli. È il nuovo fenomeno del pop inglese, le radio trasmettono a martello la sua You give me something, Mtv pure, e lui, che ha i ventun anni tipici di un inglese del Warwickshire, pallido, biondiccio, con gli zigomi imperiosi a sostenere lo sguardo, sembra rimanersene in disparte, buono buono. Daltronde, dice, «non voglio diventare un cantante per ragazzine». E daltronde non è neppure un cantante pop visto che ogni due minuti si esalta per Otis Redding o Marvin Gaye e guai a toccarglieli perché «senza di loro io sarei ancora a sbrigare quel mestiere là». A diciottanni faceva il lavatore di auto, poi per sbaglio ne rigò tre e il principale declamò linevitabile «three strikes out». Terzo errore, sei licenziato. Ieri il suo ciddì Undiscovered, che ha undici canzoni di velluto e legno antico, è al primo posto della classifica inglese e i giornalisti della Bbc, che di solito se ne stanno incravattati nel loro scetticismo, dicono che «James Morrison sarà il prossimo a diventare grande». Può darsi. Sapete quando una storia ha la drammatica leggiadria di un romanzo? Ecco.
Suo padre, dice, era un «rolling stone», una mina vagante, e se ne andò di casa quando James era un affarino di quattro anni, ancor più pallido perché aveva appena centrato una delle trenta possibilità su cento di sopravvivere: «I medici avevano detto: con quella tosse non ce la fa e per quattro volte mi hanno tirato fuori dal coma. Forse sono state tutte quelle medicine a regalarmi una voce così». Quando parla, sembra un preacher nero che intona il gospel in una chiesa battista, solo un po più squillante. «Mia madre non poteva badare a noi, era troppo depressa e quasi sempre senza lavoro. Io e i miei due fratelli ci facevamo tutto, le pulizie, la spesa, la cena. Cambiavamo casa ogni tre mesi, ma solo perché ci mancavano i soldi dellaffitto». Però nelle valigie cerano anche i dischi di Van Morrison, o dei Pink Floyd. «A tredici anni mio zio iniziò a suonare davanti a me una canzone blues. Pensai: Wow! Io farò questo». Ma quando rigò la terza automobile, non cera ancora riuscito: «Avevo diciottanni e facevo la vita di un quarantenne». Lanno dopo, a Los Angeles dovera scappato come tanti per fuggire la malasorte, fece il contrario: ricevette una proposta irrinunciabile e come un diciottenne disse di no. «Facevo ascoltare le mie canzoni, tutti mi guardavano e poi dicevano belle, belle, però passa unaltra volta perché queste non sono le tue, queste sono di un nero». Robin Williams gli chiese una canzone per il suo film August rush e gli propose anche di recitare, per di più in un bel ruolo: «Mi voleva nel cast e chiese che gli dessi lo spartito di Pieces dont fit da far cantare alla sua orchestra. Gli ho detto subito di no, mica voglio che qualcun altro canti un mio pezzo». Spiega: «Sono un musicista, non un wannabe, ossia uno disposto a tutto per far successo». E ordina un caffè, seduto a questo tavolino anonimo, mentre anche il magazine americano Billboard strilla che «un emergente domina la classifica inglese».
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