«Sospeso»: il Pd finge di punire Penati

RomaSospeso dal partito e pure dall’elenco degli iscritti: al termine di una lunga seduta la Commissione di garanzia del Pd ha emesso il suo verdetto sul caso Penati.
L’ex braccio destro del segretario Pierluigi Bersani (che peraltro ricorda che si era già autosospeso sua sponte e che aveva «fatto tutti i passi indietro doverosi, senza attendere la decisione del partito») è fuori dal Pd «fino al completo e positivo chiarimento della sua posizione giudiziaria». Il che lascia intendere che, se «positivo» non fosse l’esito, la condanna diventerà definitiva, con l’espulsione. «Una decisione in autonomia», dice Bersani del verdetto dei probiviri. Ma il segretario era ben consapevole che un segnale andava dato, e in fretta. Gli esponenti Pd di ogni tendenza che in questi giorni girano le feste del partito, raccontano tutti la stessa storia: «La nostra gente è furibonda», «c’è un’aria pesantissima», «danno un giudizio devastante su questa vicenda», «si sono spellati le mani per De Magistris e per tutti quelli che attaccavano il Pd sulla questione morale», e così via. Difficile però che il provvedimento di sospensione possa cicatrizzare la ferita, anche se il presidente della Commissione, Luigi Berlinguer, assicura che si tratta di «una misura molto severa» e che le regole che il Pd si è dato in materia «sono tra le più rigorose del panorama politico». La minoranza interna al Pd si prepara a chiedere una «riflessione più profonda» su questo e altri casi. «Con Riccardo Villari, che in fondo aveva solo accettato di fare il presidente della Vigilanza contro il parere del Pd, fummo molto più spietati: venne subito espulso dal gruppo con parole di dura condanna politica», ricorda un parlamentare. «Invece sul caso Penati, che arriva dopo vicende torbide come quella di Tedesco e le inchieste sui dalemiani, la prima reazione di Bersani è stata quella di minacciare la class action contro chi ne scriveva...».
La lettera dello Statuto e la giurisprudenza del tribunalino interno del Pd, però, non offrivano appigli per sanzioni più severe, in assenza di condanna penale. Dal 2009, quando è nata, la Commissione di garanzia si è riunita 28 volte, e solo in un caso ha comminato la pena massima dell’espulsione: alla dirigente calabrese Luciana Frascà, che si era candidata alle scorse amministrative in una lista centrista, contro il centrosinistra. Un’altra volta l’espulsione è stata minacciata, e la vicenda è piuttosto surreale. La racconta Ermete Realacci, uno degli imputati del caso in questione, che risale allo scorso anno: «Insieme ad altri colleghi, come Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, avevamo protestato pubblicamente contro la candidatura a sindaco di Enna di Vladimiro Crisafulli, accusato di contatti con boss locali». La candidatura effettivamente venne bloccata dal segretario Pd, che però contemporaneamente deferì gli «accusatori» di Crisafulli ai probiviri per essere «venuti meno alla lealtà di partito». «In base alla nostra esperienza - racconta oggi Realacci - la Commissione si comportò come un organismo burocratico e incapace di cogliere il senso politico della nostra denuncia sull’inopportunità di sponsorizzare quel candidato sindaco. Il risultato lo ottenemmo, ma la decisione presa dalla Commissione fu cerchiobottista e pelosa: fummo invitati a “seguire le vie interne” anziché quelle pubbliche per porre problemi di questo tipo, e minacciati di espulsione se avessimo sollevato altre questioni. Mi auguro che questa volta la scelta sia più congrua». Anche se, ammette lo stesso parlamentare, «Penati ha già fatto tutto da solo, autosospendendosi, quindi formalmente non resta che prenderne atto. E anche l’atteggiamento di Bersani sulla vicenda è molto cambiato, rispetto alle prime reazioni caute». Non a tutti però l’indurimento della linea del segretario, passato dalle denunce alla «macchina del fango» e dalle minacce di class action alla netta presa di distanza, sembra bastare.


Il senatore Ignazio Marino, su Repubblica, va giù pesante: «Chiedo a Bersani una scelta esemplare: di fronte alle situazioni estreme tocca al segretario prendere le decisioni difficili. Capisco che abbia un rapporto anche personale con Penati e lo rispetto, ma è il momento delle scelte irrevocabili: Penati va espulso dal partito». Per ora, però, non è successo.

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