Riscatti per liberare gli ostaggi, attentati sventati, accordi con i signori della guerra per evitare guai ai nostri contingenti e una rete di informatori, che prima non esisteva, sono i lavori sempre «coperti», talvolta «sporchi», ma necessari che hanno compiuto gli uomini dei nostri servizi in Afghanistan.
Uno scudo invisibile di gente che rischia la pelle ogni giorno e quando va finire nei guai spesso non se ne sa nulla. In Afghanistan girano in abiti borghesi e la barba lunga per far piacere ai devoti islamici. La sciarpetta afghana di cotone a scacchi verdi o gialli non manca mai per difendersi dalla polvere. Girano su fuoristrada con targhe civili, con giovani collaboratori afghani che vengono ben pagati, ma che rischiano la pelle per aiutarli. Nelle grandi città non li vedi quasi mai in tenuta da Rambo e al massimo nascondono da qualche parte armi leggere. Entrano ed escono dalla basi dei nostri contingenti a tutte le ore del giorno e della notte. Giovani e con la pelle cucinata dal sole dormono e vivono in aree riservate. Girano con telefonini satellitari e sistemi di comunicazione d’avanguardia, che permettono al comando di monitorarli.
In Afghanistan hanno messo in piedi, dopo il 2001, una rete di «human intelligence», ovvero di informatori vecchio stile. Operazioni delicate furono organizzate nel 2003 a Khost, durante l’ardua missione Nibbio del contingente italiano, vicino al confine con il Pakistan, zona infestata dai talebani. L’unica via di rifornimento terrestre, lungo la strada per Gardez, passava sulle montagne controllate dalla milizia di Padasha Khan Zadran, un signore della guerra locale, che oggi siede in Parlamento. I suoi tagliagole esigevano gabelle in improvvisati posti di blocco e un nostro convoglio di rifornimenti venne sequestrato. Ci pensò un Lawrence d’Arabia dei nostri servizi a inerpicarsi sui monti e trattare con Zadran per risolvere la faccenda. Il capo banda ottenne anche la liberazione del figlio detenuto dagli americani e pronto per Guantanamo. Con gli italiani non ci furono più problemi, ma il giovane morirà tempo dopo in uno scontro armato.
A Herat, il capoluogo occidentale al confine con l’Iran, che nell’Ottocento fu in prima linea nel Grande gioco fra impero zarista e britannico, il Sismi aveva teso la sua rete ben prima dell’arrivo del contingente italiano di un migliaio di uomini. Ai nostri 007 ha dato una mano Ismail Khan, il «Leone di Herat», un signore della guerra che ora è ministro del governo afghano, diventato leggendario combattendo prima i sovietici e poi i talebani. Gino Strada, fondatore di Emergency, ha rivelato come siano stati uomini dei servizi a portare a Lashkargah i due milioni di dollari che servirono per liberare il free lance italiano Gabriele Torsello, rapito da una banda filo-talebana nel sud dell’Afghanistan. Una delle poche foto che ritraggono gli agenti operativi è stata scattata proprio alla liberazione del fotografo, quando un uomo in borghese, di spalle, con un giubbotto mille tasche ed un mitra a tracolla scorta via Torsello.
Nel caso di Daniele Mastrogiacomo, l’altro giornalista italiano rapito in Afghanistan, gli uomini dei servizi provarono a trattare per il pagamento di un riscatto. La prima offerta era di un milione di dollari, ma il tagliagole Dadullah, che gestiva il sequestro, gli rispose che non avrebbe mollato l’ostaggio neppure per una cifra dieci volte superiore. Gli operativi dei servizi in Afghanistan sono le «antenne» del contingente, che raccolgono qualsiasi segnale di pericolo, come l’arrivo dei terroristi suicidi anche ad Herat.
Il problema è capire qual è la segnalazione giusta, ma ogni giorno le basi dei nostri contingenti ricevono una serie di «warning», che derivano dal circuito di informazione Nato e dai nostri agenti. Quando i soldati italiani finiscono sotto tiro fanno notizia, ma non sapremo mai quante volte l’hanno scampata grazie allo scudo invisibile dei servizi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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