Se scendi sul mondo trovi la Svizzera che batte la Spagna. Tutto vero: la caduta degli Dei e la vittoria dei neutrali. Gli ingranaggi del pallone si muovono al contrario: 565 milioni di euro contro 115. Vince chi vale di meno perché i soldi non dicono tutto, i soldi non segnano, i soldi non corrono. La storia del mondiale è in questa partita: l’Inghilterra che pareggia con gli Stati Uniti, l'Italia che si ferma con il Paraguay, la Francia che rischia di perdere con l'Uruguay, il Brasile che fatica con la Corea del Nord. La Spagna ingloba quelle che chiamiamo grandi per convenzione più che per convinzione.
C’è un mondo di serie B che si riprende se stesso: la Svizzera vince perché gioca meglio. Fa quello che deve: ordinata, precisa, forte, arrabbiata. La Spagna no. Bello fare i fenomeni con la Polonia nell’amichevole: vinci 6-0 e t’illudi di essere già là, vicino ai quarti, a un passo dalla semifinale. È come una top model che non guarda la passerella e inciampa: a che le serve essere la più bella se poi finisce col sedere per terra? Dicono sia un mondiale mediocre. Di chi è la colpa? Non delle Svizzere di tutto il mondo: quelle lottano, ci credono, s’organizzano. Guarda i nordcoreani l’altra sera, per esempio: hanno un portiere che fino a un giorno prima del Mondiale faceva l’attaccante e ora fanno venire la bava alla bocca al Brasile.
Il dna del pallone non è più dei soliti: la Svizzera ha gente africana, slava, turca, ha tradizioni, muscoli, cultura calcistica che non è più quella di quando faceva la controfigura anche nelle qualificazioni all’Europeo. La globalizzazione, si dice. La Nuova Zelanda ha quel difensore che ha sempre vissuto in Danimarca. Martedì le ha regalato il primo punto della sua storia in una Coppa del Mondo perché porta al suo Paese qualcosa che prima non aveva: tattica, tecnica, idee. Così per gli altri: la Germania che abbiamo visto in Sudafrica mica è la stessa di sempre. Cambia passo, perché ha cambiato tipo di gambe: gli ariani sono diventati neri e mulatti. Le facce e le storie contano più degli stipendi. Ecco perché gli Dei di Spagna cadono: miseri nella loro presunzione, vigliacchi nel loro svegliarsi solo dopo aver preso il gol. Ma tu chi sei? È finita l’era di quelli che si mettevano paura non appena giocavano contro Spagna, Italia, Brasile, Argentina, Francia e Inghilterra.
A Madrid parleranno di un gol in fuorigioco: vero, forse c’era. Però non cambia, perché la Svizzera gioca meglio. Non è più forte, ovvio. Ma che cosa vuol dire essere forti in un torneo di un mese? È più forte chi vince e noi lo sappiamo: quattro anni fa non eravamo tecnicamente e tatticamente migliori degli altri. Però abbiamo vinto. A questo Mondiale si diverte chi un tempo faceva il comprimario: l’ossessione dell’eterna incompiuta trascina la Spagna sempre in un vortice di goffaggine e debolezza che poi si traduce in una costante delusione. Hanno i giocatori più bravi del mondo: Xavi, Torres, Villa, Iniesta. Hanno quello che vogliono gli altri, però gli manca quello che gli altri hanno. La lucidità. Una cura di umiltà, chiedono oggi i giornali spagnoli. Gli Dei cadono sulla leggerezza del loro spirito, sulla pochezza della loro personalità: due anni fa, all’Europeo, erano bellissimi da vedere, erano difficili da incontrare. Erano giovani. L’invidia del mondo e di un modello di sport che Madrid, Barcellona, Valencia e il resto del Paese avevano costruito curandolo come nessun altro. Dov’è ora? In bilico come il resto del miracolo spagnolo. Però qui c’è mezzo Barcellona, poi c’è un terzo del Real, poi c’è tanto altro. L’inconsistenza spagnola è un mistero gaudioso che il luogo comune non può spiegare: a ogni grande appuntamento si sciolgono, dice un ritornello che gira da decenni. Se è così allora perché all’Europeo 2008 hanno spianato ogni avversario? No, non basta questo. È un non senso che ci raccontiamo quando non sappiamo farcene una ragione. La Spagna che crolla ogni volta è la consolazione che ci diamo noi italiani, i francesi, gli inglesi e gli altri quando vogliamo giustificare preventivamente un nostro eventuale fallimento. La verità è che abbiamo paura. Di fronte ci sono le altre. Il calcio globale, sì. La Svizzera oggi è un simbolo: fa più notizia la sua vittoria che la sconfitta della Spagna. Perché anche qui il pregiudizio ci ha sempre fatto pensare che non fossero mai all’altezza. Lo pensavamo anche nel tennis, poi è arrivato Federer. Lo pensavamo nella vela, poi è arrivata Alinghi. Sì, non c’entra. Niente c’entra se uno non vuole vedere la realtà: i piccoli si muovono meglio dei grandi, hanno fame, hanno voglia, hanno uomini, hanno spinta. I passaporti, gli immigrati, i voli low cost, il pianeta che s’accorcia fa il resto. La Svizzera oggi non è quella che ci hanno sempre raccontato. Non lo è la Costa d’Avorio, né gli Stati Uniti.
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