La Spagna non è più divisa e il re bacia il RealBarça

Non basta soffermarsi sull’emozione di re Juan Carlos («grazie per aver fatto vibrare il cuore della Spagna, avete realizzato uno dei nostri sogni») nell’accogliere al palazzo della Zarzuela la Spagna campione del mondo, per percepire le dimensioni del trionfo. Non basta nemmeno prendere nota del bilancio della lunga notte di festeggiamenti (2 morti e un centinaio di feriti) e del bagno di folla tributato ai campeòn per misurare l’entusiasmo di un popolo che non ha certo scoperto all’improvviso di avere un tesoro di nazionale, le mitiche «furie rosse». Lo sapevano dalla domenica afosa di Vienna 2008 che dentro quello spogliatoio allestito da Del Bosque c’erano tutte le virtù indispensabili per dare la caccia alla prima stella della carriera calcistica de la «rojas».
L’abbraccio tenero di re Juan Carlos riservato a Casillas e Iniesta, il braccio e la mente di questo trionfo, al ct signor nessuno, splendido architetto, non sono una scelta casuale del padrone di casa. Sembra una regia di timbro politico, madridisti ed esponenti del Barça trattati allo stesso modo, per celebrare la conquista sportiva facendo arrivare un messaggio nelle strade e nelle case («È la vittoria di tutti gli spagnoli», il saluto del premier Zapatero).
Ma questa è un’altra sfida. Qui vale ricordare ai tanti che hanno salutato con simpatia la Spagna che il successo, strameritato, non è un episodio e nemmeno, come pure è accaduto nella lunga storia del mondiale, un capriccio del destino. Tre sono le caratteristiche che hanno stregato la fantasia collettiva dopo la finalissima di Johannesburg: 1) la fede, cieca, degli spagnoli nel proprio stile di gioco; 2) la risposta fredda e misurata alle martellate degli olandesi; 3) l’impianto tattico del Barcellona utilizzato e completato con intuito da Del Bosque mettendo insieme l’anima dei catalani e quella del Real Madrid.
Avesse avuto un formidabile goleador, la Spagna campione sarebbe arrivata in carrozza e ne sarebbe uscita non dalle curve dei supplementari, con la stoccata di Iniesta, ma grazie a un più rotondo successo. Fernando Torres è stato al di sotto del suo standard, David Villa lo ha rimpiazzato alla grande, ma pochi sono stati i centri della Spagna, appena 8: ha avuto bisogno di centrocampisti e di difensori (la capocciata di Puyol alla Germania) per scavalcare gli ostacoli più arditi.
Bisogna riportare indietro le lancette del calcio spagnolo per avere cognizione dell’incipit di questo trionfo. Pensate all’operazione di Cruijff, chiamato dal Barcellona a ricostruire un settore giovanile che si era disperso nelle pieghe del metodo Real Madrid. Da allora, mettendo insieme entusiasmo e occhio alle scelte giuste, la pazienza utile a coltivare il talento, è venuta fuori la «cantera» del Barça e poi via via quel capolavoro calcistico chiamato Barcellona, una volta piantato su Eto’o e Ronaldinho e poi invece, da Guardiola, trasformato in un giocattolo, tutto possesso palla, triangoli precisi, palla sempre rasoterra, il tutto esaltato dagli slalom di Messi tra i birilli altrui.
Mai la Spagna ha perso la fede nel proprio calcio. Nemmeno dinanzi agli errori di mira di David Villa e di Fabregas, quando è arrivato il suo momento, o dello stesso Iniesta, reduce da una stagione marcata da un infortunio (saltò entrambe le sfide in semifinale contro l’Inter), hanno provocato lo scoramento. Avevano un copione e non lo hanno mai abbandonato, mai stracciato, nemmeno stravolto. Avere i nervi d’acciaio, è servito. È servito, come ha ricordato lo stesso Cruijff, per resistere alla tentazione di rissa collettiva quando l’Olanda ha «giocato sporco, con uno stile violento», parole scritte dal Peter Pan olandese che aveva accreditato nel mondo l’idea di un’altra concezione calcistica. É stata vilmente accoltellata alla schiena dagli artigli della banda di Van Marwijk.
L’epoca dei grandi blocchi, trasferiti in una nazionale, è ormai al tramonto: solo la Spagna è riuscita a farla sopravvivere. Mettendo insieme Puyol, capitano e Sergio Ramos in difesa, facendo funzionare come un orologio svizzero il centrocampo imperniato sull’asse catalano Iniesta- Xavi con l’aggiunta di Xabi Alonso.

Da questo impasto straordinario è venuto fuori un blocco unico, un monolite di squadra che ha poco segnato ma altrettanto poco subito, a dimostrazione che si può e si deve costruire una grandissimo «equipo» partendo dalla difesa, da quel portiere che bacia in diretta la sua fidanzata giornalista ma devia con una gamba la stoccata di Robben che può lasciare il segno sulla finale. Una Spagna da baciare, appunto.

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