Quando Charles De Gaulle decise di andarsene senza dare spiegazioni, lo scrittore filosofo Raymond Aron di scrisse: «È un piacere ascoltare il silenzio di quest’uomo». L’addio di Luciano Spalletti è stato sicuramente più rumoroso, ma l’ex allenatore della Roma ha fatto come De Gaulle, solo un paio di parole in più fuori da Villa Pacelli: «Ho presentato le dimissioni, la società le ha accettate». E via una sgommata a casa.
Spalletti e la Roma, Spalletti e la (famiglia) Sensi era un legame che sembrava di quelli per sempre, e per questo il tutto fa rumore in un mondo - quello del calcio - in cui la parola «dimissioni» viene in fondo a destra nel vocabolario: tra le espressioni inqualificabili. È un po’ come quando la moglie coglie in flagrante il marito con l’amante: «Non sono stato io» dice lui, perché così vuole il mestiere di fedifrago. Così nel calcio certe cose te le insegnano da subito, a Coverciano, durante il corso allenatori: «Mai dimettersi, la colpa non è vostra, non siete stati voi. A pagare deve essere sempre il presidente». Regola uno: se la impari bene ti danno il patentino.
Poi arriva uno come Spalletti e l’eccezione diventa per un giorno la regola, perché non solo Luciano se ne va dalla Roma rinunciando a un anno di stipendio, ma perché chiede che quello stipendio venga versato nelle tasche dei suoi collaboratori, quelli che se ne andranno per colpa sua e che non guadagnano certo una cifra che li può far star tranquilli sul divano di casa. Ecco, questo fa rumore: nel Paese delle dimissioni mancate c’è chi un giorno cambia le regole e diventa re. Lo stesso tecnico che, intervistato dalle Iene in tv, aveva detto che intorno al pallone di «onesti non ce ne sono». Non si era contato.
Certo, diciamolo: Luciano Spalletti non è un benefattore, con quello che guadagna può tranquillamente stare a casa per un po’ con la famiglia senza il problema del 27 del mese. Se però sapeste davvero cosa sono capaci di fare i milionari del calcio per 100 euro, capireste allora che il fiorentino Spalletti forse è un po’ «bischero», magari a volte anche un po’ fintamente simpatico, però è sinceramente così, nel bene e nel male. Ma soprattutto per il bene della Roma.
Spalletti era così quando, allenatore della Sampdoria, attaccò al muro il capitano di lungo corso Mannini dopo un litigio in spogliatoio, finendo per sporcare un brillante avvio di carriera con un esonero, seguito poi da un ritorno a breve sulla stessa panchina per accompagnare la Samp alla retrocessione. Ed era così anche a Udine, quando nessuno gli avrebbe dato un centesimo e invece in tre anni ha costruito una miniera d’oro prima di mollare tutto - con sincerità - e arrivare nella Capitale, il suo grande amore. Tant’è vero che il presidente tradito di allora, Giampaolo Pozzo, oggi dice: «Come sempre è stato coerente e coraggioso».
Per carità: alla Roma le dimissioni c’erano già state, lo fece Rudi Voeller. Ma lui è tedesco, altra razza, altro Paese. Perché nel mondo in cui le dimissioni sono un sacrilegio possono capitare solo cose strane, tipo l’allenatore del Siracusa - leggasi Campionato Dilettanti - che improvvisamente una domenica schiera 5 attaccanti e insegue l’arbitro fino all’area di rigore dopo un fischio contrario, finendo poi per andarsene per «dissapori con la società». E la sua squadra era in testa con 17 punti di vantaggio a poche giornate dalla fine: una follia, appunto. Gli altri, i Mancini un po’ offesi dagli eventi, prendono i soldi e non scappano, anzi.
Quella di Luciano Spalletti insomma è un gesto lucido, medidato, sofferto. Lascia sul tavolo di una società in difficoltà una cifra che molti di noi sognano per una vita e si porta dietro l’ammirazione di chi gli sta intorno, anche quella di chi lo trova antipatico. Perché nel Paese delle dimissioni mancate ieri è successo qualcosa.
Ora a Roma al suo posto arriverà Claudio Ranieri e com’è strana la vita: ha trovato un posto grazie alla Juve, proprio la squadra a cui è rimasto aggrappato a lungo dopo l’esonero. La squadra, tra l’altro, da cui non volle schiodarsi: «Dimettersi? È un errore di gioventù», disse.
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