Spararsi per un danno all’auto di papà?

La macchina ha preso il sopravvento sull’uomo. Pensate che sia una frase fatta, una battuta buona tutt’al più per uno sgangherato film di fantascienza? Aspettate e leggete. Nella notte di lunedì scorso un contadino trentenne di Codevigo (Padova) s’è suicidato per aver ammaccato la carrozzeria della Fiat Punto che gli aveva prestato suo padre. Una Punto! Evidentemente ha ritenuto che quella macchina superasse il suo valore di uomo. Ha lasciato il modulo della constatazione amichevole nelle mani dell’incredulo automobilista con cui s’era scontrato vicino a casa, sulla statale Romea, ed è andato a gettarsi nelle acque del Canale Novissimo, morendo annegato.
Mi sono ricordato che sette anni fa, sempre a Codevigo e sempre ai primi di maggio, dopo un incidente stradale sempre sulla Romea, s’era impiccato un contadino. Ma quel pover’uomo aveva una scusante: nell’auto andata distrutta la sera prima c’erano i figli di 26 e 24 anni. Invece l’anno scorso, ancora nel Padovano, un giovane venticinquenne di Carmignano di Brenta s’era sparato un colpo di fucile per aver ammaccato la Fiat coupé del padre, presa di nascosto dal garage.
Dunque la macchina sembra avere il sopravvento solo sui figli, non sui padri. Che cosa sarà mutato nel corredo genetico della nostra specie nel breve passaggio da una generazione all’altra? E perché proprio nel Veneto? La regione di Pietro Maso. Che già prima di conseguire la patente di guida aveva a disposizione l’Alfa 75 di papà e uccise a pentolate in testa i genitori per potersi comprare, con i loro sudati risparmi, una Bmw bianca con selleria in pelle dello stesso colore.
Ma poi un cartellina di ritagli ingialliti soccorre la memoria vacillante. E leggi del ventenne di Ovada (Alessandria) che si gettò da un viadotto della Voltri-Sempione, inutilmente trattenuto da quattro amici in lacrime, dopo aver sfasciato la Lancia Delta del padre: temeva d’essere rimproverato perché 15 giorni prima aveva messo fuori uso la propria Punto. E del diciottenne di Cagli (Pesaro), che si sparò un colpo di doppietta alla tempia sinistra, lasciando un biglietto ai genitori in cui dichiarava che non trovava il coraggio di confessargli d’aver provocato alla Y10 un danno di un milione e mezzo di lire. E del sedicenne di Serra San Quirico (Ancona) che si tirò una fucilata per aver strisciato l’utilitaria del padre bidello uscendo di strada durante una gita con la fidanzatina. Ed è come se tutte queste morti assurde avessero il potere di risvegliarla, la memoria. Così finisci per ricordarti che eri un cronista alle prime armi quando uno stimato professore di greco e latino del liceo classico della tua città, ancora nel Veneto, fu ammazzato dal figlio poeta, accecato dall’ira per il diniego paterno: «No, l’auto non te la compro!».
Resta in sospeso l’angoscioso interrogativo: perché i ragazzi temono di non riuscire a reggere l’ira dei padri solo quando c’è di mezzo un danno automobilistico? Non m’è mai capitato di leggere, almeno non con questa impressionante frequenza, di giovani che si uccidano per la vergogna d’aver violentato una ragazza o d’essere stati colti in flagranza di furto. Comincio a pensare che l’auto abbia acquisito uno smisurato, mostruoso valore simbolico. Credenziale dell’agiatezza raggiunta dopo generazioni di pellagra, la sua distruzione è vissuta come un’irreparabile regressione allo stato d’inferiorità e indigenza. Ci vorrebbe un fondo di solidarietà nazionale fra padri, carrozzieri, concessionari e assicurazioni: il paraurti accartocciato, la fiancata disfatta, ve la ripariamo noi, e se anche la macchina fosse proprio distrutta, da rottamare, tornate a casa: non v’è nulla, nel mondo delle cose, che non possa essere ricomposto. Tutto, purché viviate, purché non vi ammazziate per una stupidissima latta semovente che andrebbe stretta persino alle sardine.
LAUREATI IN TEOLOGIA. Mi segnalano che le Domande di sabato scorso – riguardanti le chitarre in chiesa, l’autobenedizione pasquale delle case, il vino da messa portato all’altare nella brocca Tupperware e Fratello sole, sorella luna di Ortolani al posto dell’Ave verum di Mozart – sono finite nella rassegna stampa della Conferenza episcopale, con qualche eco nelle stanze vaticane. Poiché non c’è limite al peggio, sono in grado d’integrarle con una ben più sconvolgente esperienza in cui sono incappato domenica scorsa: l’esecuzione del Padre nostro sulle note di Sound of silence di Simon e Garfunkel, colonna sonora del pruriginoso film Il laureato. Quella che Dino, nel 1967, interpretava così: «Se tu guardi gli occhi miei / che hanno pianto per amor / che han versato tante lacrime / puoi trovarci la tua immagine / quel tuo viso, quella bocca, / che baciai, che baciai». Avranno pensato che Gesù la cantasse a Giuda.
TENGA IL RESTO. Il Corriere della Sera sull’Irak: «Il Pentagono auspicava un esercito formato dal 60% di sciiti (maggioranza nel Paese), 30% sunniti, 10% curdi e il resto dalle altre minoranze. Un obiettivo fallito». Colpa dell’aritmetica?
RIONE SANITÀ. Secondo Guglielmo Pepe, direttore del supplemento Salute di Repubblica, il ministero che ha lo stesso nome del suo giornale porterebbe sfortuna.

E cita i casi di Francesco De Lorenzo, che «finì in carcere e fu distrutto politicamente»; di Girolamo Sirchia, «prima defenestrato» e poi «indagato per finanziamenti “strani”»; di Francesco Storace, «che ha preferito dimettersi per difendersi meglio dal suo presunto coinvolgimento nel cosiddetto “Watergate all’amatriciana”». Non dimentica qualcuno? Ma certo: Rosy Bindi, che dopo essere stata ministro della Salute è tornata a essere Rosy Bindi. Una bella sfiga.
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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