Da «spazi di lotta» a «bioculturale»: ecco i danni che la politica ha fatto all’italiano

Il linguaggio politico italiano è stato sviscerato in lungo e in largo e conta numerosissimi studi, anche se tutt’altro che imparziali. Ultimo della serie quello di Maria Vittoria Dell’Anna, Lingua italiana e politica (Carocci, pagg. 128, euro 10), che si propone di storicizzare il fenomeno. Ad una prima parte, intesa a circoscrivere le varietà del discorso politico (pubblicità elettorale, interventi parlamentari, discorsi congressuali...) anche in relazione ai mezzi usati (giornali, Tv, radio) segue una breve e sintetica rassegna del linguaggio dei leaders e dei movimenti succedutisi sulla scena politica italiana nel corso del Novecento. Troviamo così il linguaggio del fascismo, su cui si sono versati i classici fiumi d’inchiostro, e quello della prima Repubblica nei suoi «stili» rappresentativi: quello vivace e sanguigno di Nenni, quello «egotista» di Craxi, quello criptico di Moro (chi non ricorda le «convergenze parallele»?), divenuto emblema della Dc. Non manca neppure Pannella con i suoi gesti plateali, ma curiosamente viene ignorato il «sinistrese» sessantottesco. Eppure fu un tam tam che, specie nelle università, non ebbe rivali: «rivendicazioni sociali», «comitati di liberazione», discorsi da «portare avanti», «spazi di lotta» da gestire, ecc: una cultura che, come ha scritto Raffaele La Capria, «fu adottata immediatamente e naturalmente, dopo il ’68, da ogni maestro di scuola, e ormai dovunque attecchita, come il verbo lungamente atteso, col suo fatale schematismo». Fu quello il linguaggio politico dominante e restò tale per più di un ventennio, quando con la caduta del muro di Berlino marxisti e post-marxisti si convertirono al multiculturalismo. Gli immigrati divennero i nuovi proletari e nacquero nuovi cliché e parole d’ordine: ad esempio «razzismo» come simbolo di male assoluto sostituì «fascismo». Ma di tutto ciò non c’è traccia nel libro, in cui invece si legge che «la prosa di Berlinguer è ordinata, priva di inutili arricchimenti e abbellimenti, talora esplicativa...». E dopo? Oggi all’eufemismo «scientifico» dei veterocomunisti è subentrato quello «culturale», inteso come odio per le parole comuni, e la macchia d’olio di questo nuovo linguaggio, che in quanto a vacuità, fa il paio con l’arte concettuale, si allarga sempre più. L’amministrazione Veltroni trasforma i gatti di Roma in un «patrimonio bioculturale» e nei programmi elettorali di certi sindaci parchi e giardini diventano «punti di valorizzazione urbana e ambientale». Ma anche di questa, chiamiamola così, nouvelle vague si tace. Tra le «novità comunicative» della Seconda repubblica appaiono nel libro l’anti-politichese di Bossi e, naturalmente, il linguaggio di Berlusconi, su cui si sono esercitati vari autori, «utilizzando - ahinoi - accanto alle tecniche dell’analisi qualitativa del discorso e della sociolinguistica, anche gli strumenti dell’analisi quantitativa e statistica».
Grazie a questi studi, per la verità prescindibili, sono emerse alcune «costanti» del linguaggio berlusconiano: ad esempio «l’insistenza sul pericolo comunista» e «l’appello enfatico e abusato all’affetto e lo scivolamento sul piano dei sentimenti personali», giudicati, evidentemente, sconvenienti. In realtà, tutti i grandi leader usano ricorrere alla «mozione degli affetti» e sotto questo profilo Berlusconi non fa eccezione. In ogni caso non è con questo metro che vanno giudicati i discorsi politici, che non sono costruzioni letterarie più o meno riuscite, ma «atti di parola», che equivalgono ad azioni e, se celano un pericolo, è quello dell’autosufficienza.
Come ha scritto Paul Ricoeur, «il legame fra l’atto del dire e quello del fare non può essere mai del tutto spezzato».

Perciò la politica, se vuole parlare a tutti, deve mettere da parte le utopie non meno della «cultura» esornativa con cui si vorrebbe addobbarla. Come ha scritto il Premio Nobel Octavio Paz, «non si tratta di costruire il futuro, ma di rendere abitabile il presente». E di questo credo che Berlusconi sia stato un interprete fedele.

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