La spedizione dei Mille: una guerra di conquista

Caro Granzotto, leggo sempre con grande interesse le sue risposte ai lettori, soprattutto quando lei parla della spedizione dei Mille o di come fu fatta l’Unità d’Italia perché si tratta di giudizi e di notizie che non sempre si trovano sui compendi di storia patria studiati a scuola. A questo proposito, mi sono imbattuto nei giorni scorsi in un interessante diario, «Da Quarto al Volturno» di Abba, e vi ho trovato riscontri riguardo al fatto che Garibaldi fu aiutato dagli inglesi a sbarcare, fu aiutato dai picciotti locali, fu aiutato dai generali borbonici che tradirono il loro re e altre notizie poco eroiche. C’è anche da dire, però, che non fu proprio una passeggiata conquistare il Regno Borbonico perché qualche battaglia dovette pur essere affrontata e Abba ne descrive quattro di cui due abbastanza cruente. Qualche schioppettata dovette essere tirata, qualcuno ci lasciò anche le penne e le marce da otto ore al giorno sotto il sole estivo siciliano dovettero essere fatte. Penso, quindi, che, forse, nel parlare della spedizione dei Mille si dovrebbero lasciare da parte sia i toni eroici ma anche toni eccessivamente deprecatori. D’altronde Ulisse non conquistò Troia con un cavallo? E allora, che cosa c’è di male nell’aver sfruttato la cupidigia di un generale borbonico, rifilandogli delle cambiali false? Non sarà eroico ma sicuramente è geniale. Non trova? Anche perché se quel generale avesse creduto in ciò che stava difendendo, forse non avrebbe tradito, segno della sua decadenza morale e, forse, anche dell’intero regno, non le sembra?


Sul caldo, niente da dire, caro «Aldaccio». In agosto il sole picchia, da quelle parti. Talvolta più del nemico. Mi torna alla mente l’articolo che Montanelli telegrafò al Messaggero dopo la battaglia di Santander, 18 agosto 1937. Riferendosi ai «volontari» italiani, scrisse (pagandone poi il conto, salato): «Una lunga passeggiata e un solo nemico: il caldo. Un caldo a picco, insistente, brutale. Un’avanzata tirata avanti, invece che a furia di fuoco, a furia di acqua». Certo, battaglie ne ingaggiò, Garibaldi, risalendo la penisola. Però, tutto sommato e come scrisse nelle sue Memorie «L’Esercito Meridionale (30mila uomini fra i quali molti altri “volontari” provenienti dai reparti piemontesi, N.d.r) procedeva verso la partenopea metropoli sulle ali della vittoria. I centomila (bum! N.d.r) soldati agguerriti del borbone non osavan più tener fermo al cospetto degli imberbi avventurieri, capitanati dai superbi Mille Argonauti e fuggivano e le lor masse scioglievansi davanti alle giovani schiere dei liberi, come la nebbia davanti al sole».
Sa una cosa, caro «Aldaccio»? Senza voler toglier meriti agli eroici garibaldini bisogna proprio ammettere che militarmente parlando la tratta Pizzo Calabro (o Melito Porto Salvo, nel caso di don Peppino) - Napoli sembrerebbe fatta tutta in discesa. Sessant’anni prima dell’impresa dei Mille, il cardinal Fabrizio Ruffo - partito da Pizzo in compagnia di sei diconsi sei uomini - in quattro mesi e raccogliendo truppe nel corso della marcia, giunse a Napoli obbligando quegli scalmanati saltimbanchi dei giacobini a far fagotto.

E sì che a sbarrare il passo ai safedisti era schierata l’Armée «rivoluzionaria» e napoleonica. Che, come dicono i piemontesi, l’en nein roba cita, mica bruscolini. La differenza, una cosetta da ridere, è che quella di Ruffo fu una guerra di liberazione. L’altra, quella di Garibaldi, di conquista.

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