Tratto dal capitolo «La spedizione giorno dopo giorno» di Paolo Peluffo
(
) Devo a Lauro Rossi la segnalazione di un vero mistero, che rimane ancora da indagare a fondo. L'uomo dei cento assalti alla baionetta, il fantasma che sgusciava tra le montagne inseguito da intere brigate, che con pochi uomini conquistava e faceva insorgere le città, il rivoluzionario, il sognatore triste che immaginava di salire la via Sacra alla sinistra del re dopo aver trascinato un popolo in armi alla riscossa, l'uomo vittorioso in quasi ogni scontro; quest'uomo conclude la sua più grande avventura militare, umana e politica con un testo che è riduttivo definire sorprendente, forse geniale, frutto di un'epoca in cui la dichiarazione di un progetto attraverso un testo ricco di idee ed emozioni appariva un dovere civile. Questo testo, che merita di essere ricordato tra i grandi documenti della storia è l'articolo che Garibaldi fa pubblicare sulla rivista «Il Diritto» a Napoli il 22 ottobre 1860, con il titolo Memorandum alle potenze d'Europa. È un testo che Garibaldi scrive subito dopo la battaglia del Volturno, poco prima dell'incontro di Vairano, prima dunque di aver toccato direttamente con mano l'ingenerosità gretta e senza sfumature del gruppo dirigente piemontese, ma quando già lo intuiva. Il testo colpisce per la genialità visionaria. Garibaldi di colpo ipotizza la nascita di un solo Stato europeo, che prende le mosse da una confederazione: «Supponiamo che l'Europa formasse un solo Stato. Chi mai penserebbe a disturbarlo in casa sua? Chi mai avviserebbe, io ve lo domando, turbare il riposo di questa sovrana del mondo?». Già l'ipotesi è davvero sorprendente. Ma come, Garibaldi non era la guida del movimento nazionale del popolo italiano, un indipendentista? Che senso ha, nel momento in cui sta appena nascendo lo Stato italiano, immaginarne lo scioglimento in uno Stato europeo? La pace deriverebbe dalla eliminazione tout court degli Stati europei che dovrebbe succedere a una iniziativa confederale, che Garibaldi immagina partire da Inghilterra e Francia per poi trascinare tutti i popoli che ambiscono al riconoscimento delle nazionalità. La pace consentirebbe lo smantellamento degli eserciti, delle flotte, degli investimenti in armamenti, e l'avvio di una grande fase di opere pubbliche in tutta Europa. «E in tale supposizione, non più eserciti, non più flotte, e gli immensi capitali strappati quasi sempre ai bisogni e alla miseria dei popoli per essere prodigati in servizio di sterminio, sarebbero convertiti invece a vantaggio del popolo in uno sviluppo colossale dell'industria, nel miglioramento delle strade, nella costruzione dei ponti, nello scavamento dei canali, nella fondazione di stabilimenti pubblici e nell'erezione di scuole che torrebbero alla miseria e all'ignoranza tante povere creature che in tutti i paesi del mondo, qualunque sia il loro grado di civiltà, sono condannate all'egoismo del calcolo e della cattiva amministrazione delle classi privilegiate e potenti, all'abbrutimento, alla prostituzione dell'anima o della materia».
Che parole sono queste? È il frutto di un visionario sognatore che, giunto a veder svanire la possibilità della liberazione nazionale, immagina un obiettivo più alto e forse irraggiungibile? Sì e no, perché Garibaldi entra nel dettaglio della possibilità concreta che dal concerto europeo si passi, per iniziativa di Napoleone III (il politico che lui più detesta) con l'aiuto inglese, a questa ipotesi confederale per l'Europa: «Ebbene! L'attuazione delle riforme sociali che accenno appena dipende soltanto da una potente e generosa iniziativa. Quando mai presentò l'Europa più grandi probabilità di riuscita per questi benefizi umanitari?».
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