Sulla scena, più etereo e saltellante che mai, ha ancora l'aspetto di un elfo; nella vita quando lo si incontra elegantissimo, con solo l'ombra di un guizzo che si propaga velocissimo dal labbro, Paolo Poli sembra non un attore ma un serio conferenziere chiamato da molto lontano.
Eppure il suo nuovo spettacolo, questo Aquiloni che nel nome di Giovanni Pascoli sta portando in giro per l'Italia (ora all'Elfo Puccini di Milano fino al 13 gennaio), non fa che confermarci la sua maschera di sempre: un Pinocchio miracolosamente fatto uomo... Ma forse è solo l'apparenza. Fatto sta che Aquiloni è un malizioso viaggio nel passato «nei territori della nostra infanzia o nel piccolo mondo antico dei bisnonni». Certo è che il mondo del giovane Poli era tutt'altro che piccolo e provinciale. «I miei spettacoli - racconta lui - nascono dai quadri di Savinio e la mia formazione è avvenuta all'ombra di Cesare Brandi. All'università, ai miei tempi remoti, ero proprio il pupillo di Brandi che voleva ad ogni costo, dopo la laurea in letteratura francese, che studiassi estetica e critica d'arte. Sempre che abiurassi Savinio, il famoso De Chirico numero due (fratello del grande pittore Giorgio), che a lui non piaceva». Un ambiente dunque colto, severo nei giudizi. «Brandi considerava Savinio più astuto che dotato. Anche Longhi raffinato com'era non impazziva per nessuno dei due fratelli. A differenza di sua moglie, Anna Banti, che li aveva battezzati i pittori spiritosi». Anche l'autrice di Artemisia era amica del giovane Poli, anzi, più che amica «confidente». Racconta lui che la Banti lo consigliava, o meglio lo sconsigliava di salire sul palcoscenico per dedicarsi piuttosto all'arte: «Non si dedichi al teatro, caro Poli. Pensi com'è più eccitante girare per ambulacri vuoti e cantine affollatissime quando la posta in gioco è scoprire, quasi per caso, un capolavoro!». La vocazione, forse, non era ancora incrollabile: «Beh, il palcoscenico mi attirava. Ma non al punto di sacrificare la cultura per lo sberleffo.
Come ho fatto più tardi, e più volte mi è stato rimproverato. Tanto è vero che, negli anni cinquanta, non facevo collezioni di couplet e canzoncine, ma recitavo addirittura Beckett».
Una strada poi abbandonata, forse poco gratificante: «Mi faceva un po' paura immergermi in quella filosofia del delirio, della morte dell'anima. La storia dell'arte invece... mi conquistava. Forse perché già da allora speravo, fosse solo per una sera, di trasportare quei capolavori sulla scena a far da cornice ai miei spettacoli. Come siamo presuntuosi, da giovani!». D'altronde la Banti non era l'unica a «tentare» Poli. Anche Maria Bellonci, la gran signora del Premio Strega aveva progetti per lui: «Diceva che dovevo scrivere. Secondo lei, sarei potuto diventare il nuovo Achille Campanile. Ma io, che non volevo saperne, già compivo le mie piccole prodezze tra gagà e ballerine. Lei lo venne a sapere, si recò a teatro in incognito e mi rimproverò: Troppe canzonette, ragazzo mio! A lei si addicono i drammi boscherecci di Shakespeare, creda a me». Magari non aveva tutti i torti. «Chissà. Ma allora facevo teatro per rilassarmi dalla cultura imperante. Non ne potevo più di ricevere i consigli disinteressati di Giuliano Briganti che per me era un nume».
Ma Paolo Poli ha avuto una serie incredibile di grandi maestri: «Carrà mi fece capire come si può creare con la stessa pennellata il misterioso dissidio tra forma e colore senza confonderli nell'ombra.
Una lezione fondamentale anche per il mio lavoro quando con Lele Luzzati, il mio amico di sempre, studiavamo insieme sfondi e siparietti per gli spettacoli su Gozzano e sui romanzi neri di Carolina Invernizio».C'è da chiedersi e da chiedergli perché Poli non scriva un copione su questi personaggi esemplari: «Sono vecchio, ed è doloroso riandare a un passato che non tornerà più».
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