Cultura e Spettacoli

Addio alla voce "Amatissima" (e furiosa) degli afroamericani

La scrittrice nel 1993 fu la prima donna di colore a vincere il Nobel. Fu insegnante, editor e attivista politica

Addio alla voce "Amatissima" (e furiosa) degli afroamericani

Quando, nel 1993, Toni Morrison fu insignita del premio Nobel per la Letteratura, prima afroamericana nella storia, non in pochi storsero il naso, ritenendola un'operazione di facciata, una sorta di ammenda pubblica verso i torti di un popolo, quello degli schiavi afroamericani di cui era una discendente. Non era la prima volta che l'assegnazione di un Nobel creava insoddisfazioni e non sarebbe stata l'ultima. Eppure, Toni Morrison ha sempre rivendicato con orgoglio quello e altri riconoscimenti, indossandoli come medaglie di onore a nome della sua gente.

Nata nel 1931 in Ohio da una famiglia di discendenti di schiavi della poverissima Alabama, Toni Morrison mostrò quali fossero le sue ambizioni fin dal principio, con una laurea in Letteratura nel 1951 e poi docenze in prestigiosi atenei come la Cornell University, Princeton e la Howard University. Nel frattempo, a partire dal 1965, iniziò a lavorare come editor per la casa editrice Random House, valorizzando se non proprio scoprendo una serie di narratrici afroamericane che si sarebbero fatte notare molto presto: Angela Davis, Gayl Jones, per citarne un paio.

Il suo primo romanzo, L'occhio più azzurro, uscito nel 1970, affronta una tematica che, nella comunità letteraria afroamericana, è quasi un'ossessione: immaginarsi più bianchi di quanto si sia. Del 1977, invece, è Il canto di Salomone, forse il primo romanzo ad averla proiettata sulle scene nazionali, la storia di un ragazzo di colore negli anni '60 partito da Detroit alla volta del leggendario Sud, culla del blues e primo approdo americano degli schiavi, un mondo in cui certi diritti che al Nord iniziavano a essere garantiti a tutti erano di fatto sospesi per la gente di colore.

Ma è con Amatissima, del 1987 (e diventato un film, Beloved, titolo originale del romanzo, con Oprah Winfrey nei panni della protagonista, l'anno seguente), che l'autrice dell'Ohio fece bingo, proiettando la sua carriera verso vette di popolarità e acclamazione critica fino a poco tempo prima solo agognate. Amatissima racconta la storia vera della schiava afroamericana Sethe che, poco prima dello scoppio della Guerra Civile, si ribella al destino e cerca la libertà al Nord, sullo sfondo di un'America sempre in bilico fra momenti di straordinaria empatia e spietatezze indicibili. Il libro le valse il Pulitzer nel 1988 e una serie di incarichi prestigiosi, compresa una cattedra di scrittura creativa a Princeton, facendole da trampolino di lancio verso il Nobel, nel 1993.

Non un carattere facile, quello della Morrison, a giudicare dalle numerose testimonianze raccolte nell'ambiente letterario. Leggendari sarebbero stati alcuni suoi capricci ed esagerate alcune sue pretese. Alessandro Portelli, insigne americanista, la vede diversamente: «Mi piace citare Emily Dickinson a proposito di Toni Morrison. A nearness to tremendousness. Con lei ci si sentiva in presenza di qualcosa di più grande e profondamente umano. Si avvertiva una rispettosa ammirazione. Quella donna si difendeva dalla grettezza di ciò che i media e l'ambiente letterario le riversavano addosso con enorme generosità nello scambio delle idee».

Quello che resta di lei è soprattutto l'infaticabile lotta per dare dignità culturale al suo popolo. Non è un caso che Toni Morrison si sia personalmente spesa nella prima campagna elettorale di Barack Obama. Il quale ieri ha twitatto: «Toni Morrison era un tesoro nazionale, brava come narratrice, quanto accattivante, di persona come nelle pagine».

Eppure, la vita della Morrison non è sempre stata semplice, a partire dalla perdita del figlio nel 2010, che rischiò di farla smettere di scrivere. Donna di grande forza e convinzioni, la Morrison seguitò a scrivere anche dopo aver provato il dolore più grande che una madre possa patire.

Joe Lansdale, lettore avido cresciuto in un ambiente in cui il razzismo era la quotidianità, ci dice: «Toni Morrison è stata una innovatrice, una illusionista delle parole, e la sua magia principale è stata la coscienza sociale. Mancherà tanto a tutti». James Grady, uno dei maestri della spy story, autore del celebratissimo I sei giorni del Condor, è altrettanto chiaro: «Toni Morrison ha fatto aprire gli occhi ai lettori, soprattutto a quelli americani, di fronte alle verità che ha scritto e al fatto che a scriverle fosse stata una donna, per giunta una donna di colore capace di osservare le realtà dell'America con uno sguardo lucido e di creare storie straordinarie. Il suo impatto sulle arti e sull'industria della narrativa si sentirà ben oltre il futuro immediato».

William Ferris, per anni titolare della cattedra di Storia e Folklore del Sud alla prestigiosa University of North Carolina, ha conosciuto la Morrison di persona: «La sua vita e la sua eredità letteraria rappresentano un successo monumentale per il mondo letterario. La sua carriera di scrittrice prolifica, di narrativa così come di saggistica, di insegnante e di editor è stata contrassegnata da grandi riconoscimenti, compreso il Nobel.

È stato per me un onore insegnare insieme a Toni nel Programma di Studi Afroamericani della Yale University, negli anni Settanta, e averla ospitata a una conferenza della University of Mississippi nel 1985 e al National Endowment for the Humanities nel 2000, quando il presidente Clinton le conferì un'onorificenza».

Commenti