Prima adulare, poi rimuovere. Gli intellettuali sotto il fascismo

Due saggi riflettono sul rapporto fra cultura e regime. Molti saltarono con agilità dal consenso alla condanna

Prima adulare, poi rimuovere. Gli intellettuali sotto il fascismo

Ci si avvicina a libri come I fantasmi del fascismo di Simon Levis Sullam (Feltrinelli, pagg. 230, euro 19) e Scrivere a destra di Antonio Di Grado (Giulio Perrone editore, pagg. 380, euro 18) con il legittimo sospetto dell'ennesima occasione sprecata. I rispettivi sottotitoli, «Le metamorfosi degli intellettuali italiani nel dopoguerra» e «Vite narrate e vite perdute nel ventennio nero», attenuano il sospetto di cui sopra, senza però cancellarlo del tutto.

Il fatto è che quando si affronta il tema dei rapporti tra fascismo e cultura, tra intellettuali e regime, tra coscienza privata e coercizione pubblica s'alza la cortina fumogena di un antifascismo tanto autoconsolatorio quanto manicheo, a cui fa da contraltare, come quasi sempre accade nella parte sconfitta, una memoria storica rancorosa e sterile, poco interessata a raccontarsi le ragioni di quella sconfitta se non nell'ottica vittimistica del tradimento, del doppiogiochismo, della «quinta colonna» che tramò vilmente alle sue spalle e così facendo la pugnalò a morte...

Intendiamoci, i due saggi in questione sono di livello e scritti entrambi con l'idea di comprendere, non di condannare, tantomeno di fucilare, letterariamente, i cattivi e osannare i buoni. Quello di Sullam indaga le trasformazioni, le azioni e le inazioni di quattro protagonisti della cultura italiana tra fascismo e dopoguerra e su come fecero i conti con il passato del Ventennio: Federico Chabod, Piero Calamandrei, Luigi Russo e Alberto Moravia. La conclusione che, più in generale, Sullam ne trae, è che nell'Italia repubblicana nata dalla fine della Seconda guerra mondiale, «gli intellettuali contribuirono a rimuovere il fascismo dalla coscienza storica degli italiani, a sminuirne le responsabilità collettive, a censurare o a idealizzarne i comportamenti. Comportamenti che erano stati anche i propri, cioè l'acquiescenza alla dittatura o almeno a un certo conformismo in pubblico».

Un caso tipico e insieme un caso limite, vista la complessità del personaggio, può essere rappresentato da Elio Vittorini e dal suo Diario in pubblico, uscito nel 1957, in cui il suo ritratto di intellettuale e scrittore antifascista persino quando era fascista «era in realtà il risultato di rimozioni, mimetizzazioni, ri-contestualizzazioni di tutti quei suoi scritti che documentavano invece la sua adesione al fascismo». Coda di paglia e autocensura, insomma.

Fra gli intellettuali presi in esame da Sullam, il più anomalo, nel suo essere un narratore puro è Moravia, il cui spirito antiborghese è stato a lungo scambiato per una critica al fascismo senza rendersi conto che per quelli della sua generazione la borghesia era un'altra cosa, era la cosiddetta Italietta giolittiana, era l'Ottocento liberale e paludato traghettato nel nuovo secolo e che proprio il fascismo aveva spazzato via. È un elemento che nell'analisi di Sullam è presente, ma non approfondito, ma che emerge con maggior evidenza nel saggio di Di Grado, meno accademico quanto a stile e intenzioni, ma non per questo meno illuminante. Nel ricostruire un'epoca, quel primo Novecento come «robusto calderone di idee», Di Grado osserva come «fossero tutti accomunati dall'insofferenza: per l'angusto assetto dell'Italia giolittiana, per l'acquiescenza del riformismo turatiano, per la razionalizzazione dello status quo operata dalla cultura positivista, per l'impossibilità di emergere e di contare di nuovi ceti, nuove generazioni, nuove idee. Tutti animati da un impulso volontaristico che scardinava ogni forma di determinismo (...). Un'analoga mescolanza di provenienze e tensioni terrà a battesimo il fascismo e ne segnerà, successivamente, l'ambivalente natura di regime e di movimento».

Ciò ci riporta a delle considerazioni avanzate ancora da Moravia in tarda età, e riprese da Sullam, a proposito dell'antifascismo dei fratelli Rosselli, che erano anche suoi cugini: «Li trovavo illusi (...) Avevano delle idee più vicine al Risorgimento che al Novecento». E ancora: «Quel che non mi ispirava simpatia in loro era proprio l'atmosfera borghese, fortemente borghese, voglio dire strettamente ideologizzante, in cui si mossero». È un'osservazione che fa il paio con una considerazione di Giovanni Ansaldo, che pure per tutti gli anni Venti era stato fieramente antifascista, per poi divenire l'intellettuale di riferimento di Galeazzo Ciano: «Si voglia o non si voglia, Mussolini è stato un grande avventuriero. La nostra superiorità di fascisti è quella d'aver osservato questa avventura da vicino. La grande inferiorità degli antifascisti è quella di averne sentito parlare soltanto da lontano». Nella storia d'Italia, e non solo, insomma, più che essere un fatto nuovo, il fascismo fu un monstrum, ovvero qualcosa di radicalmente diverso da quello che fino ad allora era stato un consolidato sistema di valori, l'individualismo liberale e il marxismo come diversi, ma non opposti modi di stare al mondo, dove a differire erano i metodi, non il fine. Qui invece c'era un movimento che rifiutava il tradizionalismo della destra classica, ma allo stesso modo si schierava contro l'illuminismo, in una visione interventista dell'esistenza dove l'uomo è soggetto cosciente di storia. Se sono queste le radici del fascismo, se ne comprende meglio essenza e originalità in quanto fenomeno storico del XX secolo, nonché il fascino che poteva esercitare. Comprenderlo, naturalmente, non vuol dire accettarne o condividerne le idee. Gli studiosi delle crociate riconoscono la validità dell'Islam, ma non per questo diventano maomettani.

Scrive Di Grado che gli atti di ossequio a un regime «provano soprattutto l'infamia d'un regime che costringeva alla questua umiliante, alla genuflessione, a una penosa dissimulazione». Ha ragione, a patto di non esagerare e di non illudersi troppo sull'animo umano. Basta osservare come in una società democratica funzioni il meccanismo dell'adulazione, dell'autopromozione, il carrierismo eccetera per rendersi conto di come non servano le dittature per promuovere l'abiezione umana. Allo stesso modo è condivisibile l'idea che «non c'è democrazia che non si fondi su gerarchie retrospettive di memorie: cioè sopra scelte di campo, o professioni di fede, o carte d'identità». «Non v'è nazione moderna che non sia nata da una guerra civile» chiosa ancora Di Grado, ma è significativo come in Italia il concetto stesso di guerra civile abbia dovuto attendere mezzo secolo prima che la cultura antifascista ufficiale lo accettasse, e ancora con fatica, come soggetto di discussione: Una guerra civile, di Claudio Pavone, è del 1991... Questo significa altresì la difficoltà di creare una «memoria condivisa» e il dover contemplare l'idea di una cosiddetta «memoria separata». Difficoltà tanto maggiore in Italia dove la mancanza di un serio, profondo esame di coscienza ha impresso sui vinti riconosciutisi come tali un marchio quasi di non umanità.

Anche qui la cultura dei vincitori ci ha messo del suo, dal letterariamente mediocre Uomini e no del solito Vittorini al Sentiero dei nidi di ragno di Calvino, l'idea di un essere umano rappresentativo del Bene che giudica e condanna l'emblema del Male. Il paradosso è però che spesso giudice, boia e condannato sono stati nel corso di una vita la stessa persona.

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