Sua santità Giovanni XXI scosse la testa e si fece vincere dall'impazienza, strepitando con lo scrivano: «No! Hai sintetizzato male il nostro pensiero! Non abbiamo detto che vediamo con favore l'attacco di Carlo d'Angiò all'impero bizantino... Si è già impossessato del regno di Napoli e della Sicilia, vuoi che si prenda anche la corona di Costantinopoli? D'altronde non vogliamo neppure negargli la possibilità di aspirare a quella corona: dobbiamo blandirlo per usarlo sia contro le ambizioni di re Rodolfo di Germania, sia come velata minaccia contro l'imperatore bizantino... Sai quante cose dobbiamo estorcere alla corte di Costantinopoli? L'unione tra la Chiesa cristiana e quella ortodossa stabilita al concilio di Lione, tanto per cominciare; e il riconoscimento della dottrina trinitaria della Chiesa latina e della superiorità del pontefice romano... Signore, è un equilibrio così complicato che non mi sorprende che un semplice chierico come te non lo capisca...».
«Perdonatemi, santità... Mi sono confuso... Se avrete la pazienza di ripetere il concetto, stavolta lo trascriverò con maggior cura», biascicò lo scrivano, assumendo un'espressione da cane bastonato. «Ma no, ma no... Forse non abbiamo ancora le idee chiare. Il Signore pretende umiltà da noi, e non sia mai che ci rendiamo colpevoli di superbia. Ma ora esci e lasciaci soli: abbiamo bisogno di riflettere», dichiarò, facendogli segno con la mano di levarsi di torno.
Il chierico si alzò col capo chino e si dileguò oltre la porta. Il papa sbuffò e si chiese per l'ennesima volta perché avesse accettato un ruolo per il quale non si sentiva proprio tagliato. Era un uomo di scienza, lui, autore di tanti ponderosi testi apprezzati dalle persone di cultura. Cosa ci faceva in mezzo a quella foresta piena di predatori che si era rivelata la corte pontificia? Il papato sarebbe dovuta essere la suprema autorità dei credenti, una guida per lo spirito dei cristiani... Invece, la priorità era la mediazione politica, la sopravvivenza politica, l'autorevolezza politica: insomma, la politica, come un qualsiasi regno temporale. Lo aveva intuito da cardinale, ma finché aveva rivestito la porpora non si era mai lasciato coinvolgere completamente dalle beghe di potere, né si era aspettato che la tiara potesse mai toccare a lui: solo la morte di tre papi nell'arco di un anno gli aveva consentito di ascendere al soglio, e si era stupito quando il cardinale decano aveva proposto lui come nuovo pontefice.
Il cardinale decano... Giovanni Gaetano Orsini sì che era tagliato per il ruolo di papa. Eppure aveva fatto in modo che lo diventasse lui, per evitare che lo fosse un cardinale sostenuto dal re di Napoli Carlo d'Angiò e per non spaventare lo stesso Carlo con la propria nomina. Da quando lo aveva fatto eleggere, dettava ogni sua mossa, finendo sempre per convincerlo che fosse l'opzione migliore per la difesa del nome di Cristo. E doveva ammettere che aveva una visione assai lucida di ciò che serviva per rendere il papato autonomo dalle ingerenze del re di Germania e aspirante imperatore Rodolfo d'Asburgo, dal sovrano bizantino Andronico III, dal re di Francia Filippo III, dal comune romano, e soprattutto da Carlo d'Angiò: era costui la presenza più incombente da quando, un decennio prima, la sua famiglia lo aveva aiutato a soffiare il regno del sud d'Italia alla casata sveva e alla genia dell'Anticristo, Federico II, sconfiggendone il figlio Manfredi a Benevento e il giovane nipote Corradino a Tagliacozzo. L'Orsini era un politico consumato, prima ancora che un uomo di Chiesa, e nell'ormai ristretto collegio cardinalizio, che non poteva contare neppure una decina di cardinali deputati all'elezione papale, dettava legge, grazie anche al sostegno del cugino Matteo Rubeo, porporato quasi altrettanto influente. Tanto più dopo la recente morte di Riccardo Annibaldi, il cardinale cui faceva capo l'altra potente famiglia romana, che aveva dato il suo sostegno agli Svevi.
Giovanni si chiese perché in soli tre mesi di pontificato si fosse fatto così tanti nemici. In fin dei conti, tutti sapevano che era il cardinale Orsini a dettare le decisioni del papato. Lui era quasi un mero esecutore. Eppure c'era chi lo accusava di essere un negromante, di dedicarsi alla magia, solo perché era un uomo di studio. Ma di sicuro in giro c'era qualche mago che aveva lanciato un sortilegio contro il papato. E considerando quanti avversari si era procurata la Chiesa negli ultimi tempi, non c'era da stupirsi. Gregorio X era morto quindici mesi prima, Innocenzo V undici, Adriano V solo nove mesi prima, ad appena trentanove giorni dalla sua elezione.
Giovanni si sentiva relativamente al sicuro perché sapeva che l'Orsini vegliava su di lui, ma non poteva fare a meno di guardarsi le spalle in ogni momento e diffidare di chiunque: perfino il chierico che fungeva da scrivano poteva essere un agente di chi voleva rendere il papato un'istituzione prona ai voleri di un re. Per questo si era fatto costruire, subito dopo l'elezione, un appartamento privato all'interno del palazzo papale di Viterbo, dove trascorreva la maggior parte del tempo, come in quel momento.
Sospirò ancora e rivolse i propri pensieri a un ufficio più semplice dei delicati equilibri tra le varie componenti della politica europea. Magari gli si sarebbero schiarite le idee, pensò. Prese pertanto dalla pila dei documenti sul suo scrittoio l'incartamento riservato alla raccolta delle decime per la crociata, che rappresentava uno dei punti cardine della missione papale; in particolare, da quando gli ultimi progressi dei musulmani in Terrasanta avevano ridotto i possedimenti cristiani alla città di San Giovanni d'Acri e poco altro. Iniziò a scorrere la lista delle copie delle lettere inviate ai vari stati europei. (...)
Sentì degli scricchiolii sopra la testa e sollevò il capo scrutando il soffitto, ma la debole luce delle torce non gli consentì di vedere granché. Chinò di nuovo il capo sui documenti, ma un nuovo scricchiolio, ancor più pronunciato, rimbombò sopra di lui. Sollevò di nuovo la testa e aguzzò lo sguardo. Gli parve di notare delle crepe, ma la sua vista non era più quella di un tempo e gli parve assurdo: il suo appartamento era stato costruito davvero da poco. Si strinse nelle spalle e tornò a studiare la faccenda del re del Portogallo, per capire quale espressione conciliasse le esigenze della Chiesa con la necessità di evitare la rottura col sovrano: si era proposto di prendere qualche iniziativa personale, senza dover sempre richiedere il conforto del cardinale Orsini come un bambino ai propri genitori. Ma il rumore si trasformò in un rombo. D'istinto il pontefice si alzò in piedi e si avviò verso la porta. Ma tra sé e l'uscita si materializzò un detrito caduto dall'alto, e poi un altro, ancora più grande. Il pavimento sembrò vibrare sotto i colpi inferti dal soffitto che si sgretolava. La porta si aprì, rivelando sulla soglia il viso tremebondo e l'espressione sgomenta dello scrivano. Un altro detrito sfiorò il papa, che perse l'equilibrio e cadde a terra.
Cercò di rialzarsi ma si accorse di non farcela; tese la mano in direzione del chierico, che però era troppo terrorizzato per riuscire a fare un solo passo avanti. Poi un altro pezzo di solaio gli cadde addosso, frantumandogli una gamba. Ma il dolore lancinante non durò che un istante. Subito dopo, un altro brano del soffitto lo investì in pieno.
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