Ci sono almeno due miti da sfatare su Marcel Proust. Il primo è che fosse uno smidollato: nel 1897 sfida a duello Jean Lorrain, che aveva stroncato il suo libro I piaceri e i giorni (una recensione in cui tra l'altro si spettegolava su una relazione tra Proust e il figlio di Léon Daudet). Scontro con la pistola, finito senza spargimenti di sangue. Il secondo mito è che sia lo scrittore dell'amore e della vita in senso gioioso e magari consolatorio, quando Proust casomai rende Leopardi un ottimista. Lo si vede già nei suddetti racconti giovanili, dove ci sono già i semi della futura Recherche, e oggi potete leggerli anche nell'edizione appena pubblicata dalle edizioni di Clichy (una piccola casa editrice fiorentina e coltissima) e curata dai bravi Giuseppe Girimonti Greco e Ezio Sinigaglia (pagg. 196, euro 12).
Nel racconto La morte di Baldassare Silvande Proust analizza, come Tolstoj ne La morte di Ivan Il'ic, gli ultimi momenti di Baldassare, visconte di Silvania, iniziando con una citazione di Mallarmé: «La carne è triste, ahimè». L'unica consolazione sono le cure affettuose di amici e parenti, le quali però sono permeate di ipocrisia, appena il malato si sente meglio i premurosi tornano a fare la vita di sempre, sollevati dal dover fingere un affetto che non provano.
La vita trasforma le persone, le modifica lentamente, tanto che uno dei concetti proustiani ricorrenti è che si muoia molte volte durante la vita prima di morire biologicamente. In Violante o la Mondanità una giovane signorina, Violante abbandona i piaceri semplici della campagna per tuffarsi nella mondanità cittadina, ma gli anni la cambieranno, rendendola immune a ogni piacere. «La donna pianse sulla vanità dei propri desideri, che un tempo avevano volato pieni d'ardore verso la carne allora florida e ormai sfiorita per sempre». Di nuovo la carne, il decadimento fisico e psicologico, perché «la naturale tendenza delle cose terrene è degradarsi». È infatti il degradarsi delle cose, la disillusione, l'approssimarsi della fine e della morte, una delle costanti del pensiero di Proust che troveremo ampiamente sviluppato nella Recherche (chi volesse approfondire legga il mio saggio su Proust L'evidenza della cosa terribile, disponibile anche online sul sito di Nuovi Argomenti).
Proust cantore dell'amore? Certo, ma per smascherarlo in quanto illusione, impulso spesso immotivato e anch'esso destinato a degradarsi, a spegnersi. Impossibile, tanto per cominciare, obbligare qualcuno che non ci ama ad amarci (si legga L'indifferente). Oppure innamorarsi di qualcuno che valga la pena di amare. Madame de Breyves, nel racconto Malinconica villeggiatura di Madame de Breyves, si innamora di un uomo che trova insignificante, né bello né intelligente, senza sapere perché. Non lo rivede mai, eppure continua a desiderarlo, senza ricordarsi neppure «i lineamenti, i contorni del corpo, quasi più nemmeno gli occhi. Eppure questa immagine è tutto ciò che ha di lui». L'amore, insomma, è tutt'altro che un sentimento profondo, e si ricordi come, nella Recherche, tutto l'amore del Narratore per Albertine si risolverà nel rendersi conto che l'unico momento in cui l'aveva amata era quando l'aveva appena intravista, non conoscendola.
Ma a corrompere l'amore, quanto ogni sentimento, è un unico, terribile acido: l'abitudine. Ne La confessione di una ragazza la protagonista si è appena sparata (mancando la mira), a causa del dolore per la morte della madre, ma presto arriva a una conclusione: «in seguito, dall'assenza ho tratto altri insegnamenti ancora più amari, ovvero che all'assenza ci si abitua e che la cosa più svilente per noi stessi, la sofferenza più umiliante consiste nel sentire che non ne soffriamo più». Il dolore di non soffrire più.
E poi, ovviamente, la gelosia, sentimento proustiano per eccellenza. Non ancora ai livelli de La prigioniera, o di quella di Swann per Odette, ma già strutturata nelle sue fondamenta di pena vana e senza soluzione. Neppure in punto di morte c'è pace, come nel racconto La fine della gelosia, quando Honoré, rimasto ferito, senza gambe, e con i giorni contati, cerca disperatamente di amare la fidanzata Françoise senza pensare a chi la possiederà dopo di lui, perché amare e essere gelosi, al contrario di quanto si crede, non è vero amore. L'imminenza della morte allontana ogni emozione di vita, ma non la gelosia. «Sentiva sollevarsi il velo che nasconde la vita, la morte che è dentro di noi, e scorgeva la cosa spaventosa che è respirare, vivere». Ma subito dopo «si trovò ricondotto al momento in cui Françoise si sarebbe consolata, ma con chi? La sua gelosia si sgomentò per l'incertezza di quell'avvenimento e per la sua inevitabilità». Fino ad arrivare a desiderare la morte, perché solo con essa finisce il tormento della gelosia. «Non sono più geloso, è perché sono molto vicino alla morte; ma che importa, se questo era necessario perché io provassi finalmente per Françoise il vero amore».
Al capezzale, infine, la gelosia svanisce, ma con essa l'amore: «Non l'amava più del medico, delle vecchie parenti, dei domestici, e non l'amava nemmeno in modo diverso. Ed era quella la fine della gelosia». Anche nell'amore, insomma, la morale di Proust è che, se son rose, sfioriranno.
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