Amélie Nothomb ha "Sete" di farci ascoltare Cristo

Il nuovo romanzo è un monologo interiore di Gesù tra la sua passione, morte e resurrezione

Amélie Nothomb ha "Sete" di farci ascoltare Cristo

Gli scrittori, quelli veri, scavano nei secoli, nei millenni. La loro azione appare spesso incomprensibile al nostro mondo cartesiano, che ha fretta di classificare, suddividere, catalogare. Che ama supporre che un'azione come quella del raccontare si possa asservire ora al pensiero logico-deduttivo (la «visione del mondo», l'«affresco della società» ecc.) ora alla cartografia delle emozioni: in tutti i casi, a qualcosa di circoscrivibile.

Ma così non è, perché l'oggetto delle narrazioni non sono né i conflitti sociali né i sussulti del cuore, ma soltanto l'infinito, l'eterno, dio (uso la minuscola per evitare fraintendimenti).

Insomma: maelstrom, non mainstream. Nel gorgo precipitano pensieri, emozioni, città, epoche.

La scrittrice belga-nipponica Amélie Nothomb è così, è di questa razza. I romanzi sono come possibili amanti. Si incontrano, si spogliano, si amano. I corpi rivelano qualcosa che ci attrae, che ci respinge. Molto spesso, sotto il vestito c'è solo un manichino, un'imbottitura di paglia.

Ma Amélie Nothomb ci attende nuda. Così sono i suoi romanzi, che la sua penna produce con velocità balzachiana. Ci sconcerta la nudità della sua scrittura, la carne viva, senza ripari, della sua prosa, esposta a qualsiasi vento di disprezzo, di buia libidine, di scherno, di pietà.

Il suo ultimo romanzo s'intitola Sete (Voland, pagg. 128, euro 16) e consiste in un monologo interiore di Gesù tra il processo, la passione, la morte, la deposizione e la resurrezione. Con felice sprezzatura, la scrittrice rifiuta ogni correttezza storica, ogni verifica, ogni adesione mimetica (in realtà abbastanza ridicola) alla mentalità dell'epoca.

Il suo Gesù ragiona come un giovane belga, o praghese, o bonaerense acculturato dei nostri giorni, ama Maddalena ricambiato e gli dispiace di avere ricevuto un compito così pazzesco da parte di suo Padre. Avrebbe preferito vivere la splendida vita normale e anonima della gente comune (qui la Nothomb sembra esagerare un po' la bellezza di questa vita) tanto più che il Padre non sembra comprendere la follia del suo stesso disegno. Dio è buono, ama il mondo e l'idea stessa dell'incarnazione è una prova della sua esistenza ma anche della sua follia. Perché Dio non è corpo, e non conosce quello che si può conoscere avendo un corpo, quindi non sa quello che sta chiedendo a suo figlio, ne ignora le conseguenze.

Possiamo naturalmente non essere d'accordo con questa versione delle cose (sempre che vogliamo perdere tempo con l'azione spesso vana del concordare e del discordare - vedi dibattiti tv sul coronavirus). Quello che non possiamo fare è perderci le conseguenze che, inesorabilmente, questa grande scrittrice trae da tutta la vicenda. La più vertiginosa delle quali è il modo in cui Gesù, dapprima con molto disappunto e poi con sempre maggior felicità, accetta la propria morte - da uomo - e, sempre da uomo, produce, inventa la propria resurrezione. Non è sicuro che tutto questo salverà il mondo, ma una cosa appare chiara: questa salvezza è qualcosa di totalmente umano, così umano come solo un dio può esserlo.

Perché solo il divino è capace di una totale, assoluta presenza al mondo, alle cose, al tempo e allo spazio: ossia di una totale umanità. La vita degli uomini al contrario è immersa nella tenebra del non-essere, o del non-esserci, spesso ci siamo e non ci siamo, siamo ottusi di fronte alla realtà non perché poco intelligenti ma per l'incapacità di essere presenti. Gesù è figlio di dio e, come lui, è il sempre-presente. Ogni sensazione lo riempie di beatitudine, il rumore della pioggia sul tetto di una capanna lo manda in estasi. Il tempo per lui si realizza nel suo inesorabile legame con l'eterno. Non so come Nothomb sia giunta a queste vette teologiche, so che c'è arrivata e mi basta.

Sete è la parola nella quale si riassume l'assoluto dell'esperienza umana. Se l'opposto della fame è la sazietà, la sete non ha un opposto. La sete è un perfetto stato mistico (molte cose sono mistiche, dice la Nothomb, e anche in questo credo abbia ragione) e non bisogna affrettarsi a soddisfarla. Bisogna conoscerla, accoglierla: questo essere disseccato siamo noi stessi. Gesù si stupisce di sudare anche sulla croce, di avere ancora così tanta acqua in corpo. Le sue ultime parole, dice, non sono quelle attribuitegli dagli evangelisti ma solo «ho sete». Nell'atto di bere l'aceto dalla spugna del soldato che poi lo trafiggerà Gesù inizia la sua resurrezione.

Sete è un romanzo felicemente spudorato come la sua autrice. Filtrato secondo le pretese di un editor dei nostri giorni potrebbe apparire quasi irricevibile. A parte Gesù (poche volte ho visto così ben rappresentata la bontà di un uomo) gli altri personaggi non ricevono sviluppo, Giuda è un piccolo capolavoro ma viene presto abbandonato come anche gli altri, da Pietro alla Maddalena, non hanno destino e ce ne dispiace; la stessa struttura narrativa sembra un po' gratuita, non ha ossatura, sono pagine giustapposte, il finale potrebbe trovarsi ovunque, non c'è nulla da compiere. Eccetera eccetera.

Eppure che bel libro. Senza apparati, senza distinzioni, senza struttura, senza parti. Scritto presumibilmente in un lampo, in quell'atto di suprema presenza che è l'arte, e che il mondo scambia per totale assenza.

Già. Il mondo.

Quella cosa - il mondo - che obbliga a vestire abiti neri, a mostrarsi eccentrici, a esibire la finzione richiesta dai fotografi, dai firmacopie, dalle presentazioni, dalle interviste. L'artista somiglia un po' a Dio, ma poi deve tornare da questa parte, dove son gli anni infausti e brevi, e dove le ali d'albatros servono solo per camminare un po' peggio.

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