È per tutti noi naturale, sentirsi vittime dell'isolamento. Ma, ragionandoci sopra, ci accorgiamo che, pur essendo vittime, siamo anche un po' colpevoli. Se da un lato, percependo la società come una parte (lesa, appunto) di noi, come un nostro organo vitale, soffriamo il non viverla come, dove e quanto vorremmo, dall'altro, essendo membri della società, la facciamo a nostra volta soffrire non venendo da lei vissuti, privandola del nostro contributo. A confortarci restano la ragion pratica e le ragioni della scienza, le quali affermano che stiamo restringendo gli spazi per allargare il tempo, in attesa che questi si confermi il miglior medico: un mare di tempo in cui diluire la potenza di un veleno cui basta un istante per aggredirci.
Ora, non è il caso di peggiorare la situazione appesantendoci con il senso di colpa. Tuttavia, leggiamo queste frasi: «non poteva farsi vedere per strada. Sarebbe stato aggredito dalla folla, e fermato dalla polizia. Era costretto a vivere isolato dal mondo, come l'Uomo dalla maschera di ferro». La persona di cui si tratta trascorse in quarantena 24 dei 28 anni che gli toccò in sorte di vivere. Ma, come noi, quando ebbe la possibilità di entrare nella «fase 2», uscendo dalla prigione della solitudine, ebbe paura. Perché lui, Joseph Carey Merrick, temeva di non avere nulla di buono da offrire alla società, essendo un mostro. Era, infatti, l'Uomo Elefante, e la sua storia ce la racconta proprio il medico che lo traghettò dalla fase 1 alla fase 2, cioè dallo stato di monstrum agghiacciante esibito quale fenomeno da baraccone a quello di cittadino quasi normale. L'Uomo Elefante è il titolo della relazione che il dottor Frederick Treves pubblicò in un volume poco prima di morire, nel 1923, insieme a molti altri casi clinici di cui si era occupato nella sua carriera e ora Adelphi la edita nella collana di ebook «Microgrammi» (pagg. 32, euro 1,99).
Chi ricorda l'omonimo, bellissimo film di David Lynch datato 1980, leggendo queste pagine rivedrà gli occhi sbarrati di Treves interpretato da Anthony Hopkins (sbarrati come saranno, per l'attore gallese, undici anni dopo in un ruolo diametralmente opposto, non più angelo salvatore, bensì demone distruttore, lo psichiatra cannibale Hannibal Lecter del Silenzio degli innocenti). E noterà anche le veniali licenze poetiche che il regista si concesse. Ma soprattutto non potrà non sentirsi solidale, in questi momenti di per se stessi mostruosi e per certi versi sub-umani, con il povero Joseph. Nato a Leicester nel 1862, egli manifestò sin da piccolissimo i segni della malattia denominata, oltre un secolo dopo, «sindrome di Proteo»: pelle, ossa e tessuti, compresi i vasi sanguigni e linfatici, crescono in maniera irregolare, proteiforme, appunto, conferendo al malato un aspetto orribile. Ben presto lo sventurato, rimasto orfano della madre e cacciato di casa dal padre e dalla matrigna, divenne preda di un impresario di freak show (e qui il riferimento cinematografico risale al 1932, allo scioccante Freaks di Tod Browning in cui nulla era falso, poiché gli attori-personaggi-persone di un circo mettevano in scena, nude e crude, le loro disgrazie). Degli incassi, come della vita, gli spettavano soltanto le briciole. Il caso volle che la vittima e il suo aguzzino nel 1884 facessero tappa a Londra, in uno scantinato di Mile End Road, di fronte all'ospedale in cui Treves, allora trentunenne, era lettore di Anatomia. Incuriosito dal manifesto pubblicitario con l'immagine di «una creatura spaventevole, uscita dritta da un incubo», Treves vi entrò.
In quel momento, Joseph Carey Merrick uscì dalla fase 1. Sotto lo sguardo del medico, non era più un mostro da esibire per provocare brividi momentanei negli spettatori, ma un uomo. Un uomo del quale prendersi cura. Treves lo visitò e poi fece una relazione per il British Medical Journal. «Mi ero fatto l'idea che Merrick fosse imbecille, e lo fosse dalla nascita. Era una supposizione fondata su quel volto privo di espressione, su quelle parole biascicate, su quell'atteggiamento che lasciava intravedere una mente incapace di emozioni, o di pensieri. In realtà, che quella mente fosse vuota quanto immaginavo era, prima che una convinzione, una speranza. L'idea che quell'essere capisse la sua situazione era inaccettabile». La capiva eccome, purtroppo. Tuttavia, prima di entrare davvero nella fase 2 gli toccarono altri due anni d'inferno: in Inghilterra furono messi fuorilegge i freak show, così Joseph finì nelle mani di un nuovo padrone-carceriere che lo portò in tournée sul continente. Abbandonato come un cane in Belgio, utilizzò avventurosamente i pochi spiccioli che possedeva per tornare in patria. Giunto alla stazione londinese di Liverpool Street il 24 giugno 1886, teneva ancora in tasca il biglietto da visita che Trevor gli aveva lasciato due anni prima...
Quattro anni durò la vera vita di Joseph, accolto al London Hospital con una terapia intensiva di affetto da Trevor e dai suoi collaboratori, conoscenti e amici. No, nessuna cura era possibile per quella patologia deturpante: le attenzioni andavano rivolte all'anima, non al corpo. E qui venne il difficile, perché Joseph temeva di uscire da se stesso, di diventare un'immagine spaventosa negli occhi degli altri. Gli occorreva un titanico mutamento interiore: da repellente oggetto passivo, diventare attraente soggetto attivo, da mister Hyde, diventare dottor Jekyll (e notiamo che il racconto di Stevenson uscì nel 1886).
Leggere, scrivere, andare a teatro, ricevere visite (persino dalla principessa del Galles), innamorarsi delle belle dame nelle quali l'iniziale curiosità per il-caso-di-cui-tutti-parlano si trasformava in sincere attenzioni, persino fare una vacanza in campagna: così Joseph si rese, giorno dopo giorno, immune dal suo male di vivere.Intanto, per le strade di Londra, si aggirava un altro mostro. Lo chiamavano Jack lo Squartatore, ed era un virus implacabile. Ma anche lui, un bel giorno sparì.
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