Attenti ad applaudire il popolo Parola del «liberale» Renan

Il celebre storico criticava la democrazia parlamentare: meglio un governo delle élite che la falsa politica di Rousseau

Francesco Perfetti

Il 28 marzo 1863 Ernest Renan (1823-92) fu invitato per la prima volta al dîner Magny, un tradizionale cenacolo conviviale che riuniva periodicamente nell'omonimo ristorante parigino giornalisti, scrittori, artisti, scienziati. Era un ritrovo di intellettuali, tutti uomini l'unica donna ammessa dopo lunghe esitazioni fu George Sand che facevano a gara per spettegolare e mettersi in mostra. Un salotto esclusivo che, nella spumeggiante Parigi del secondo impero dove i salotti erano divenuti di gran moda, mise insieme personaggi come Sainte-Beuve e Theophile Gautier, Gustave Flaubert e Hippolyte Taine per non dire dei fratelli Goncourt.

Proprio questi ultimi commentarono, nel loro Journal, il debutto di Renan stilandone un ritrattino velenoso: «Renan, faccia da vitello con qualche rossore, delle callosità da culo di scimmia. Un uomo grassoccio, corto, male imbastito, la testa incassata nelle spalle, l'aria un po' ingobbita, la testa d'animale, tra il porco e l'elefante, il naso enorme e cadente, il viso tutto macchiato, rigato, puntinato di rosso. Da quest'uomo, malsano, mal congegnato, brutto a vedersi, d'una bruttezza morale, esce una vocina stridula e in falsetto». Certo, Renan non era un Adone e i ritratti che se ne conoscono, a cominciare da quelli conservati nella sua casa natale di Tréguier ora trasformata in museo, non ne ingentiliscono i lineamenti e ne sottolineano piuttosto una trascuratezza nel vestire e nell'atteggiarsi. Ma da qui a farlo apparire repellente, dal punto di vista sia fisico sia morale, ce ne corre.

A quell'epoca Renan, sulla soglia dei quarant'anni, era già uno studioso apprezzato che si muoveva tra filosofia e filologia, tra storia antica e storia delle religioni. Da un punto di vista politico, egli, figlio di un ardente repubblicano bretone e di una madre di idee monarchiche, per molto tempo aveva oscillato fra posizioni diverse, non ben definite. Ai dubbi religiosi, che avevano incrinato i capisaldi della sua educazione in seminario e lo avevano spinto verso i lidi di una visione scettica verso la Chiesa cattolica, si erano accompagnate incertezze in politica presto sfumate in un generico liberalismo. Con l'avvento al potere di Napoleone III, egli, come molti altri intellettuali, aveva ceduto al fascino e alle lusinghe dell'«impero liberale». I Goncourt, con la loro solita perfidia, lo accusarono di essersi venduto: «Il giornalismo avvicina il letterato al denaro, fa guadagnare il banchiere con le azioni emesse. È lo svilimento, quando non è la sentina del carattere. Se Renan se ne fosse rimasto nel suo studio a scrivere libri, anziché essere redattore del Débats, il potere non l'avrebbe comprato in mezz'ora: ci avrebbe forse nesso un'ora e mezza».

In realtà, le cose stavano diversamente. A spingere Renan verso il secondo impero era stato il suo timore di una deriva rivoluzionaria insieme al convincimento, giusto o sbagliato poco importa e comunque intriso di scetticismo, che il regime inaugurato da Napoleone III fosse un tentativo di conciliare, richiamandosi al mito del primo Napoleone, liberalismo e cesarismo. In altre parole egli riteneva che fosse il male minore l'essere governati da un Cesare capace di ascoltare i consigli degli intellettuali nel rispetto dei diritti dell'intelligenza. La formula «impero liberale» gli appariva così una formula positiva.

Poi, c'erano state la guerra disastrosa contro la Prussia di Bismarck, la sconfitta, la Comune. Renan considerò quella guerra «la più grande disgrazia che potesse capitare alla civiltà» e dalle sue riflessioni nacque quel celebre saggio, La riforma intellettuale e morale della Francia, riproposto ora dall'editore Aragno nell'edizione curata da Regina Pozzi (pagg. X-140, euro 12) e destinato, al suo apparire nel 1871, a suscitare ampie discussioni. Il libro, subito percepito più che come un pamphlet d'occasione come un testo di filosofia politica, non piacque, per esempio, allo storico Hyppolite Taine, mentre entusiasmò Flaubert. Rimane, al di là dei consensi o dei dissensi, il fatto che esso divenne un testo importante del dibattito politico nella Francia dell'ultimo scorcio del XIX secolo: un testo nel quale, paradossalmente, pensatori di destra e di sinistra trovarono argomenti utilizzabili contro la democrazia parlamentare e il principio della sovranità popolare.

La riforma intellettuale e morale della Francia si presenta, all'apparenza, come un lavoro di circostanza, una riflessione sulle cause della sconfitta e una proposta politica per accompagnare la rinascita nazionale. In realtà il libro è molto di più di un pamphlet o di un saggio di attualità politica. E la sua fortuna fu dovuta al fatto, per usare le parole di Regina Pozzi, che esso ha avuto «la capacità di sintetizzare gli umori che nel corso del secolo diciannovesimo» si erano «venuti addensando contro la democrazia del Contratto sociale». Esso propone, in primo luogo, una rilettura di tutta la storia francese dalla fine del feudalesimo per far vedere come essa sia stata «un tutto così ben collegato tra le sue varie parti che non si può capire uno solo dei nostri lutti del presente senza ricercarne la causa nel passato». I suoi giudizi sono taglienti. Per esempio, Renan sostiene che la Francia «commise un suicidio» quando «tagliò la testa al suo re»: gli inizi della Rivoluzione erano stati «ammirevoli sicuramente», ma poi «prese il sopravvento la falsa politica di Rousseau» e fu la fine: «ci si lasciò prender la mano dal popolo, si applaudì puerilmente al disordine della presa della Bastiglia, senza pensare che questo disordine avrebbe più tardi tutto travolto». Ancora, spostandosi ai suoi tempi, egli dà un giudizio in chiaroscuro di Napoleone III: sotto il suo impero, malgrado la mancanza di libertà, la maggioranza dei francesi fu «assolutamente contenta» perché «aveva ciò che voleva, l'ordine e la pace», ma la scelta di fare la guerra contro la Prussia portò al disastro.

Per ricostruire, anche dal punto di vista morale, la Francia sarebbe stato necessario mettere da parte il principio democratico della sovranità popolare perché fondare un governo sul suffragio popolare sarebbe stato come costruire un edificio utilizzando la sabbia: «La democrazia fu la nostra debolezza militare e politica; fu la nostra ignoranza, la nostra sciocca vanità; fa, col cattolicesimo retrogrado, l'insufficienza della nostra educazione nazionale». Sarebbe stato necessario capire che «la coscienza di una nazione risiede nella parte illuminata di una nazione, la quale trascina e comanda il resto» e che la civiltà stessa era stata, in origine, «un'opera aristocratica».

Eclettico e confuso, forse un po' ambiguo in politica, Renan, liberale e repubblicano, ma anche bonapartista e sostenitore, in questo saggio, di una monarchia aristocratica e castale, divenne una specie di «santo laico» nella Terza repubblica e passò alla storia per quella celebre definizione della nazione come «plebiscito di ogni giorno» contenuta in una memorabile conferenza del 1882. Da destra e da sinistra fu amato ed esecrato: nessuno poteva riconoscersi appieno nelle sue argomentazioni anche se da esse attingeva materiali per la battaglia politica.

Fatto è che La riforma intellettuale e morale della Francia, al di là della sua solidità o fragilità teorica, è un testo che, letto in filigrana e con lo sguardo dei posteri, prefigura l'avvento inquietante dell'età dell'imperialismo.

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