Da "Auschwitz" a "Lettera": i segreti del maestro Guccini

In un volume l'esegesi delle canzoni del cantautore tra richiami alla cultura popolare e a quella colta

Da "Auschwitz" a "Lettera": i segreti del maestro Guccini

C'è Mario Pieraccini, «il frate» che parlava in tedesco e in latino e - tra un bicchiere di vino e l'altro - discettava di Dio e Schopenhauer... C'è il fuochista Pietro Rigosi «lanciato a bomba contro l'ingiustizia» sulla sua locomotiva... Ci sono i vecchi «che non sanno distinguere il vero dai sogni», e poi le donne, le stagioni, i dolori, tutta la gamma di sentimenti e di storie quotidiane, e proprio per questo epiche, nelle canzoni di Francesco Guccini. Il mondo di Guccini si inserisce, di diritto, nel nostro panorama poetico e letterario. Lo sapevano i fan come noi che conoscono i suoi testi parola per parola, ma ora lo riscoprono nel libro Francesco Guccini.

Canzoni (Bompiani, pagg. 323, 20 euro) commentate splendidamente da Gabriella Fenocchio. 43 brani, particolarmente significativi nel corpus artistico del cantautore, affrontati e messi a nudo nel loro magico incrocio tra cultura popolare, cultura alta e pezzi di vita. Guccini è un poeta per l'assenza di certezze che permea le sue canzoni, se non quelle del passare del tempo e della fedeltà a certi luoghi e a certi affetti (salvo eccezioni come la sua Modena, che in Piccola città viene definita «bastardo posto»). La complessità del vivere è un tema primario nell'estetica gucciniana, raccontata al meglio in Canzone di notte n.2 (qui assente) quando recita : «Eppure fa piacere a sera/andarsene per strade ed osterie vino e malinconie/e due canzoni fatte alla leggera/in cui gridando celi il desiderio che sian presi sul serio/il fatto che sei triste o che t'annoi/e tutti i dubbi tuoi». C'è l'orgoglio e la coerenza in Canzone delle osterie di fuori porta, ancora aperte anche se «la gente che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta/qualcuno è andato per età/qualcuno perché già dottore/e insegue una maturità/si è sposato fa carriera ed è una morte un po' peggiore». Guccini non è così; oggi è un personaggio, uno scrittore, ma non ha mai perso la sua anima di biassanòt, come si definiscono i nottambuli in dialetto bolognese; e poi è lui che ha sentenziato «ci vuole scienza, ci vuol costanza per invecchiare senza maturità», un proclama che è sintesi della sua saggezza. Notevole il lavoro di esegesi della Fenocchio, che parte da Auschwitz (ispirata dal libro di memorie di Tu passerai per il camino di Vincenzo Pappalettera e da Il flagello della svastica del barone di Liverpool Edward Frederick Langley Russell) e arriva a L'ultima Thule, lasciando fuori il periodo dell'album Folk Beat n.1. I brani vengono scandagliati parola per parola per trovare citazioni e riferimenti.

In Dio è morto c'è il riferimento al poemetto Howl di Allen Ginsberg che dice: «Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia» ma anche a una copertina del Time che titolava «Is God Dead?». Guardando il testo autografo di Dio è morto, si scopre che nella stesura originale c'è una strofa, poi scomparsa nel testo definitivo (cantato dai Nomadi nel 45 giri con per fare un uomo; Guccini la inciderà insieme agli stessi Nomadi dal vivo in Album concerto del 1979) che dice: «Ho visto la gente migliore/della mia generazione/nelle strade di automobili/morire sull'asfalto/morire nel cemento/sparire nelle notti/non credere all'amore/non credere più in niente/perché la civiltà di macchine/ha divorato tutto/non abbiamo più regole/per ciò che è dritto o storto/21 pollici a rate/hanno cambiato il mondo».

Tra musica popolare e divertissement letterario si colloca la lunga e coinvolgente Canzone dei dodici mesi, in cui mille sono le citazioni e le parafrasi che raccontano il ritmo circolare delle stagioni e l'incertezza lineare dell'esistenza. Come spesso capita nelle canzoni di Guccini, è doveroso il riferimento al vino e alle libagioni («Non so se tutti hanno capito ottobre/la tua grande bellezza/nei tini grassi come pance piene/prepari mosto e ebbrezza»). I colti riferimenti del brano a «giullari» del '200 e '300 come Cenne da la Chitarra e Folgòre da San Geminiano si alternano a quelli («l'ala del tempo»)ispirati dai testi persiani di Omar Khayyàm. L'incertezza della vita e della condizione umana, dicevamo, domina la poetica gucciniana, triste, dolorosa e dolorante ma mai sconfitta, sempre pronta a risorgere con beffarda sagacia.

Tra le sue pagine più lancinanti c'è la chiusa di Lettera che dice: «come vedi tutto è usuale/eppure il tempo stringe la borsa/e c'è il sospetto che sia triviale/l'affanno e l'ansimo dopo la corsa/l'ansia volgare del giorno dopo/la fine triste della partita/il lento scorrere senza uno scopo/di quel qualcosa che chiami vita». Quanta verità! Parole semplici ma ficcanti in cui Guccini, come sempre, vince la sfida di tradurre il mondo in parole liberate dalle incrostazioni della chiacchiera quotidiana. Anche quando parla di donne e amori con testi come Quattro stracci, Canzone delle ragazze che se ne vanno, Vedi cara, tristi e sarcastiche, che rivelano ancora più profondamente il suo mondo in parole.

«Tanto più nel nostro tempo - scrive la Fenocchio - che fa delle parole strumenti di menzogna, l'etica della parola di Guccini può accendere la speranza che la discrezione e la coerenza possano essere qualcosa di diverso dall'utopia».

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