da Venezia
L'enfant gaté, il ragazzo viziato, del cinema francese è questo ottantenne abbronzato, dal sorriso radioso, dritto come un fuso e che sembra usare il bastone da passeggio più per civetteria che per bisogno. Si chiama Jean-Paul Belmondo e consegnandogli oggi il Leone d'oro alla carriera Venezia celebra in lui non solo sessanta e passa anni di arte cinematografica, ma quella che un tempo si definiva «una presenza», ovvero un modo di riempire lo schermo soltanto apparendo, un qualcosa di indefinibile fatto di stile e personalità. Cinque anni fa, all'inaugurazione del museo dedicato a suo padre, Paul Belmondo, scultore e disegnatore di talento, ai fotografi che come impazziti scattavano foto su foto a lui e ad Alain Delon, venuto a rendergli omaggio, quest'ultimo aveva detto: «Approfittatene, non ce ne saranno altri come noi...» E infatti non ce ne sono.
Per l'occasione, la Mostra presenta anche il film che, giusto mezzo secolo fa, Louis Malle girò con Belmondo protagonista, quel Le voleur (Il ladro di Parigi) tratto da un romanzo di Georges Darien, la storia di Georges Randal, anarchico di buona famiglia divenuto ladro più per disprezzo del mondo che per amore del denaro. «Ci sono dei ladri che prendono mille preoccupazioni per non rovinare la mobilia. Io no. Ce ne sono altri che rimettono tutto a posto dopo il loro passaggio. Io no. Faccio uno sporco mestiere, ma ho una scusa: lo faccio in maniera sporca». Allora il film, la storia di un fallimento esistenziale, lasciò freddi critica e pubblico: la prima rimproverava a Belmondo di non continuare a essere un personaggio di Godard, intellettualmente enigmatico e indecifrabile; la seconda di non essere sempre L'uomo di Rio, atletico, divertente, fracassone e seduttore...
Cinquant'anni dopo, Le Voleur è considerato fra le sue prove migliori: «Era un film troppo in anticipo. Allora il pubblico non era pronto. Non perché lì non facessi acrobazie o cose del genere, ma perché il sottinteso della storia, il fallimento, un senso di sconfitta, la disperazione filmati a quel modo, non erano capiti, non andavano di moda».
Per capire bene il Belmondo cinematografico, bisogna partire dalle sue scelte teatrali e dai suoi gusti letterari. Kean e Cyrano de Bergerac, recitati trionfalmente al teatro Marigny di Parigi e poi portati in tournée per il mondo, Viaggio al termine della notte di Céline, il suo vero livre de chevet. I primi stavano a indicare il vitalismo, la sfrontatezza e il gusto della sfida, il secondo il nero e l'assurdità della vita e insieme il suo irresistibile richiamo. Messi insieme, come capiterà in Un singe en hiver, dove il nemmeno trentenne Jean Paul si divideva la scena con il sessantenne e mostro sacro Jean Gabin, potevano creare un personaggio come Gabriel Fouquet, giovane amante delle corride stradali dove i tori erano le macchine, preda dell'alcol e dei suoi fantasmi, uno che percorreva il mondo standosene seduto al bancone di un bar, il cuore leggero e la testa piena di ricordi. «T'abbraccio, sei i miei vent'anni» gli dice Gabin in una scena. Era come un passaggio di consegne.
Nonno piemontese, nonna siciliana emigrati in Algeria, le radici italiane di Belmondo danno a questo Leone d'oro alla carriera un significato di là dal riconoscimento professionale e del resto, cinematograficamente parlando, l'Italia fa parte del suo battesimo e del suo testamento. La novizia di Alberto Lattuada è del 1960, così come La ciociara, di Vittorio de Sica e Mare matto, di Renato Castellani, La viaccia, di Mauro Bolognini, è del 1961 e nel' 63 è presente proprio a Venezia con Pierrot le fou di Jean-Luc Godard. Quanto a Umberto D, ancora di De Sica, è un suo adattamento, Un homme et son chien, che nel 2008 segna il ritorno e l'addio alle scene di Belmondo. Sette anni prima, d'estate, un ictus lo aveva colto di sorpresa in Corsica, in piena forma, traboccante di progetti: gli aveva lasciato paralizzata l'intera parte destra e per più di un anno gli avrebbe tolto la parola. «Sono stato troppo viziato dalla vita, bisognava che pagassi il conto, in un modo o nell'altro. Se faccio un bilancio, se metto tutte le felicità che mi sono state date, non è nemmeno un conto troppo salato. So di essere handicappato, oggettivamente, ma non mi sento tale, l'ho integrato in me e quasi l'ho dimenticato».
Attore, produttore, proprietario e direttore di un teatro, bon vivant e seduttore (Ursula Andress, Laura Antonelli...
), uomo colto senza intellettualismi, divo senza divisimi, attore feticcio di Godard e ammirato da Truffaut, il preferito da Verneuil e Meville, l'incarnazione dei film d'azione di de Broca, e insomma sempre e comunque a suo agio nei generi più diversi, se non fra loro opposti, Jean-Paul Belmondo è stato soprattutto un uomo libero, nelle scelte professionali come nella vita. Alle accuse di essere troppo popolare, di avere troppo successo, ha sempre risposto facendo sua una frase di Cocteau: «In Francia, l'eguaglianza consiste nel tagliare le teste che spiccano troppo».
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