Cultura e Spettacoli

Benedetto Gentile, storia di una famiglia e del '900

Il figlio di Giovanni visse la rottura fra il padre e Croce. E fu diplomatico a Londra con Grandi

Benedetto Gentile, storia di una famiglia e del '900

Quintogenito del padre dell'attualismo, Benedetto Gentile (1908 - 1998) venne battezzato con il nome di Croce in onore del filosofo, al quale allora padre Giovanni era legatissimo. Dovette soffrire molto, Benedetto, della rottura del sodalizio fra il padre e Croce, iniziata sommessamente su La Voce prezzoliniana con una «discussione fra amici» e trasformatosi, soprattutto da parte dello stesso Croce, in una frattura che non ammetteva possibilità di conciliazione. E che ebbe un epilogo quasi farsesco, con l'opposizione di Croce e dei suoi eredi alla pubblicazione, malgrado le sollecitazioni di amici comuni come Ugo Spirito e Raffaele Mattioli, del carteggio fra i due pensatori, ritenuto, a ragione, importantissimo per la storia della filosofia italiana (e non solo) del Novecento. Soltanto da poco, dopo una faticosa mediazione, è stato possibile vederlo finalmente in edizione critica, e non più sotto forma di epistolari distinti.

Quale fosse il vero motivo del dissidio è poco chiaro, al di là della spiegazione tutta politica che ne è stata data. Proprio Benedetto Gentile, in un libro delizioso, Ricordi e affetti (Le Lettere, pagg. 174, euro 16), oggi opportunamente ripubblicato (uscì nell'88), si è posto la domanda e ha scritto: «Non credo al dissenso politico unica matrice di rotture così violente e durevoli. Né credo a un moralismo di sapore quasi manicheo, da parte di Croce che vede in Gentile dopo il '25-'26 quasi l'incarnazione dell'errore e del male, tanto meno penso che un semplice, se pur grave e profondo dissenso ideologico possa da solo assumere toni così aspri e un odio - altra parola non saprei trovare - che dura oltre la morte».

Al tempo in cui l'amicizia fra i due era ancora salda, Croce frequentava la casa di Gentile e Benedetto lo rammenta con un pizzico di nostalgia, «seduto in poltrona, con una gamba ripiegata sotto l'altra, fumando una quantità di sigarette senza aspirarne il fumo, tenendole per un capo con un curioso reggi sigarette a forma di piccola pinza» e mentre discorreva «tenendo ininterrottamente il filo della conversazione, che era quasi un monologo, in cui varie curiosità si susseguivano ad aneddoti eruditi». Improvvisamente questa amicizia così stretta si trasformò, da parte di Croce, in una ostilità tanto aspra da rasentare il ridicolo. Come quando, richiestogli un parere dal ministro della Pubblica Istruzione sulla consistenza della biblioteca gentiliana, Croce disse di non potersi esprimere, sostenendo di non conoscerne gli «sviluppi a prescindere dagli omaggi degli editori al gerarca fascista» e aggiunse che, quando lo aveva conosciuto, Gentile, allora giovane professore, era tanto oberato dal peso di una famiglia numerosa da essere inadatto a formarsi una biblioteca importante.

È incomprensibile tale ostilità quando si rifletta sul fatto che Gentile, pur interrottisi i rapporti con Croce, non ammetteva che nel salotto di casa, lui presente, si usassero toni offensivi nei riguardi dell'amico di un tempo. Verrebbe da pensare che alla base del contrasto vi fosse, da parte di Croce, insuperabile maestro negli studi filologici e letterari oltre che storici, quasi una sorta di «gelosia» per il giovane allievo creatore di un sistema filosofico, l'«attualismo», che portava alle conseguenze logiche più coerenti la filosofia idealistica. Ma è una mia supposizione.

All'assassinio del padre - Croce lo commentò ribadendo che la rottura con l'antico «collaboratore» fu dovuta al «suo passaggio al fascismo, aggravato dalla contaminazione che egli fece della filosofia con questo» - Benedetto Gentile dedica alcune belle pagine nelle quali, dopo aver discusso taluni tentativi di ricostruzione di quell'episodio, conclude che fatti come quelli «possono difficilmente farsi risalire soltanto a precise responsabilità, più o memo documentabili, di particolari mandanti». E aggiunge amaramente che, «nel segreto della propria coscienza» finirono, probabilmente, per sentirsi responsabili dell'assassinio anche «molti, tutti più o meno amici devoti dei tempi migliori». Come del resto, vale la pena di sottolinearlo, i più recenti studi sull'argomento hanno dimostrato.

Importante per la comprensione anche umana della figura del padre e per la precisazione dei suoi rapporti con Croce, il volume di Benedetto Gentile, scritto probabilmente in origine più per sé e per i familiari che per un più vasto pubblico, ha però ben altri motivi di interesse. Esso offre uno spaccato suggestivo della cultura italiana del primo Novecento attraverso il ricordo degli incontri con tante personalità, letterati o scrittori o politici che ebbero la ventura di frequentare Giovanni Gentile o di collaborare con lui, da Delio Cantimori a Ugo Spirito, da Gioacchino Volpe a Corrado Alvaro, da Riccardo Bacchelli a Giuseppe Tucci e via dicendo. Per non dire, ovviamente, di Camillo Pellizzi e Massimo Bontempelli, Leo Longanesi e Mino Maccari, conosciuti in quel di Forte dei Marmi.

Appassionato cultore di arte e letteratura - come ben dimostrò il fatto che nel secondo dopoguerra egli decise di occuparsi di editoria e, in particolare, di opere enciclopediche -, Benedetto Gentile fu anche un diplomatico di professione. Si trovò a lavorare per il proprio Paese in alcune sedi particolarmente significative dal punto di vista politico come Ginevra, Londra. Lisbona, Basilea. Nella capitale inglese, per esempio, fu alle dipendenze di «un uomo di indubitabile fascino». Il ritratto di Dino Grandi, scritto in punta di penna, è eccezionale: «il suo passato, i suoi modi decisi, le sue arti sottili nell'affrontare problemi e circostanze, un certo piglio che l'esperienza aveva reso estremamente autorevole, facevano di lui, nell'ambito dell'ambasciata, quasi una sorta di nume ascoso, al cui comportamento e alle cui direttive i suoi collaboratori si adeguavano con devota fedeltà». Grandi sapeva navigare bene nelle acque agitate e perigliose della politica internazionale all'indomani della guerra di Spagna: «il suo problema è stato sempre quello di affermare e sottolineare la peculiarità del proprio atteggiamento, conferendogli una posizione di equidistanza tra una sostanziale e comunque affermata ortodossia e una trasparente disponibilità, se pure velata di ambiguità, a soluzioni e situazioni diverse da quelle ufficiali». Sono parole che, lette in controluce, spiegano sia la particolare posizione di Grandi all'interno del fascismo, sia la logica del suo operare a livello di politica estera secondo lo spirito di quella che egli stesso volle teorizzare come «politica del peso determinante» dell'Italia nel consesso internazionale.

Molti altri sono i diplomatici illustri - da Renato Prunas a Egidio Ortona, a Renato Bova Scoppa e via dicendo - che fanno capolino nelle pagine del libro e vengono ritratti con rapidi ma efficaci cenni. Non poche sono, inoltre, le notazioni storicamente rilevanti come, per esempio, quelle riguardanti il ruolo di Lisbona, divenuta nell'ultimo scorcio del conflitto mondiale centro di intrighi, commerci, spionaggio, diplomazia segreta e trattative riservate. La capitale portoghese era infatti «uno dei pochi punti di contatto tra gli opposti schieramenti, un punto d'incrocio e in un certo modo anche di scambio» dove convergevano «le linee marittime e aeree che potevano gettare dei ponti verso i territori oltremare, verso i lontani continenti» e dove si ritrovavano, in una specie di «passaggio obbligato», «le missioni diplomatiche che dovevano essere rimpatriate man mano che il conflitto si allargava ad aree lontane».

Il volume di Benedetto Gentile non è propriamente un saggio storico-letterario né un libro di memorialistica nel senso tradizionale del termine. Ha un affascinante andamento rapsodico con un succedersi di quadri e di episodi, quasi un caleidoscopio sul mondo culturale e politico della prima metà del Novecento italiano. Ma, proprio per questa sua caratteristica, oltre che per l'eleganza coinvolgente della scrittura, è un'opera da leggere.

E sulla quale riflettere.

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