Non c'è nulla di più noioso delle biografie romanzate, soprattutto delle biografie romanzate degli scrittori. Io la penso così: quando un romanziere non sa scrivere un romanzo, si butta su una biografia romanzata. Nelle biografie romanzate la libertà dell'autore è pari alla frustrazione del lettore: non sai mai quanto c'è di vero e quanto no, e d'altra parte per questo è romanzata, altrimenti sarebbe documentata (come la biografia di Proust di Jean Yves-Tadié).
È come quando, al cinema, ti dicono: «Tratto da una storia vera», puoi scommetterci che è più finta di una inventata. Tra l'altro gli scrittori in genere scrivono, non hanno una vita interessante, salvo rarissimi casi, forse perché, come diceva Flaubert, l'autore deve dare alla posterità l'illusione di non essere vissuto. E anche perché è vissuto per scrivere, non per vivere, e se ha vissuto una vita interessante è stato il primo a scriversela, o a inventarsela (come Céline o Vollmann o D'Annunzio). Anche le disavventure in guerra di Cervantes saranno infinitamente meno interessanti del Don Chisciotte, o di un vero epistolario che parla della sua scrittura.
Di biografie romanzate di scrittori ne hanno scritte tante: su Tolstoj, su John Fante, su Isaac Babel', tutte soporifere, fatta salva forse Limonov di Emmanuel Carrère (ma lì almeno c'era molta carne al fuoco da narrare, e comunque per quanto celebrata anche su quella ho sbadigliato non poco, sarò allergico io). L'ultima uscita è quella di Jo Baker, intitolata L'irlandese (Einaudi, pagg. 320, euro 20) e l'irlandese sarebbe Samuel Beckett, che per tutto il romanzo non viene chiamato mai per nome, mentre tutti gli altri personaggi sì. Una trovata che diventa subito forzata. Per cui c'è James Joyce, chiamato Joyce, la moglie di Joyce, Nora, perfino Marcel Duchamp, mentre Beckett è sempre l'irlandese, per avvolgerlo di carisma e sintomatico mistero. Il periodo scelto è quello della Seconda guerra mondiale, quando Beckett soggiornò a Parigi insieme alla compagna Suzanne, poco prima dell'invasione tedesca, per poi unirsi alla resistenza francese. Il punto è che Beckett non era neppure in prima linea, fece il corriere e poi nascose armi in un fienile in campagna, perfino lo stesso scrittore ha sminuito quell'esperienza («una cosa da boy scout»), farne un eroe di guerra è esagerato.
Come se non bastasse il libro di Jo Baker è pieno di riempitivi (per forza, non succede mai niente), ogni venti righe qualcuno si accende una sigaretta e guarda nel vuoto meditabondo, spesso con descrizioni ridicole e letterariamente kitsch come questa: «La osserva mentre fa un tiro di sigaretta. Le sue labbra sembrano ali di un gabbiano in volo». Oppure: «Quel suo sorriso lo fa sempre trasalire, come fosse una palla piovuta dal cielo e atterratagli direttamente sulla mano». Dopo pagine e pagine siamo sempre lì: «Il fumo di una sigaretta tinge l'aria di azzurro, il fuoco arde nel camino, i posacenere si riempiono» (e ti credo, sono duecento pagine che non fate altro che fumare).
Mentre il treno (è anche pieno di treni, che partono, che arrivano, che non si muovono), beh, «il treno è una vipera che il sole del mattino non scalda abbastanza». Se l'avesse letta Beckett gli sarebbe venuto un conato di vomito.
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