Ora che se ne è andato, ora che Jean-Paul Belmondo ha messo in folle la sua ultima fuoriserie e «si è spento tranquillamente», si può capire perché è stato l'inimitabile «magnifique» del cinema: non ha eredi. Ci sono tanti piccoli Belmondo in giro ma nessun nuovo Belmondo, nessuno con la stessa potenza espressiva e l'identica capacità di essere inconfondibile in un film d'essai come in un poliziesco in bianco e nero o in un capolavoro neorealista. Un naso appiattito dalle botte a scuola, un sorriso guascone, l'innato talento di recitare vivendo oppure di vivere recitando, chi lo saprà mai.
Aveva 88 anni, vent'anni fa aveva avuto un'ischemia alla quale aveva reagito alla propria maniera: sposando la seconda moglie Natty Tardivel, diventando padre della quarta figlia e poi separandosi cinque anni dopo. Una forza della natura, un uomo così positivo al punto da sembrare sbruffone e poi portare il suo «personnage» al cinema fino a farsi notare da Jean-Luc Godard (che lo ha consacrato nel 1960 con Fino all'ultimo respiro) e da Vittorio De Sica, che nello stesso anno lo ha voluto nella Ciociara con Sophia Loren: «Il primo giorno di riprese, mi sono ritrovato fra le braccia di Sophia a darle un lungo bacio. Un sogno!», ha detto qualche anno fa a François Forestier e Josette Alia. D'altronde lui, sangue italiano grazie al padre scultore e spavalderia francese per la mamma pittrice, ha lastricato di baci celebri una carriera stellare quando per essere davvero stelle bisognava avere una marcia in più e non soltanto milioni di followers.
Per glorificare la diarchia di sex symbol in Francia, Edith Piaf diceva «io esco con Alain Delon ma torno a casa con Belmondo» e così pensava chiunque avesse visto Borsalino del 1970 nel quale recitavano insieme (Delon nella parte di Roch Siffredi...) ed erano le due facce della stessa medaglia sexy: uno bello e dannato, l'altro brutto e spavaldo al punto da essere definito «il brutto più bello del cinema». «Sono completamente distrutto. Cerco di reggere il colpo per non morire anch'io fra cinque ore, anche se non sarebbe male se ce ne andassimo insieme» ha detto Delon ieri pomeriggio con il più bel necrologio possibile. Belmondo d'altri tempi. Aveva già recitato ovunque e con chiunque, con Bolognini e Castellani e Corbucci in Italia, con Truffaut e Malle o Clément in Francia, si era persino intrufolato nello 007 «alternativo» di John Huston del 1967 con David Niven e quindi poteva godersi ciò che alla fine un grande attore cerca sine qua non, ossia la libertà. Negli anni Settanta crescono i conflitti sociali? E lui, che aveva debuttato in un cortometraggio su Moliere, diventa un eroe del poliziesco, senza manco bisogno della controfigura perché faceva tutto da solo, anche le scene più pericolose come negli Scassinatori di Verneuil (1972), Il Clan dei marsigliesi firmato da José Giovanni nello stesso anno e Trappola per un lupo di Chabrol nello stesso anno oppure, ancora, il film che gli ha dato il soprannome definitivo, più ancora dell'amichevole Bébel, quel «Le magnifique» del non memorabile Come si distrugge la reputazione del più grande agente segreto del mondo, arrivato nei cinema nel 1973. Allora il mondo era di Belmondo. E non soltanto perché si era appena separato da Ursula Andress ed era al fianco di Laura Antonelli bellissima e maledetta. Soprattutto perché il Jean-Paul Belmondo amante delle belle macchine, cascatore indistruttibile, sempre con la sigaretta che pendeva dal labbro come fosse un eterno James Dean, era libero perché non aveva ideologie, insomma faceva quel che voleva e la «belmondologia» era lo schiaffo più teatrale sulla faccia dei luoghi comuni. I suoi film non erano più così tanto seguiti? Allora «Le magnifique» torna a teatro.
In pratica torna a casa propria visto che da ragazzo, dopo essersi fatto fracassare le ossa nella palestra di boxe, aveva iniziato a rifarsele con L'avaro di Molière o il Cyrano di Rostand. Tanto Belmondo è Belmondo, basta chiamarlo con un ruolo all'altezza. Infatti vince il Premio César come miglior attore in Una vita non basta di Lelouch (1989) e poi, dopo la malattia, si prende la Palma d'Oro a Cannes e Leone d'Oro a Venezia. Premi alla carriera. Premi a un'icona.
Oggi che non c'è più, si capisce perché lascia una casella vuota. Tanti sono spacconi e spregiudicati come lui. Tanti hanno il naso rotto e il sorriso provocatorio. Qualcuno riesce persino a non umiliarsi quando sale sul palcoscenico di un teatro. Ma pochi, quasi nessuno, forse nessuno, riesce ad avere tutto insieme come se fosse vero e non una posa da selfie. Fino agli ultimi tempi, fino a quando è arrivato sul set con quel sorriso che non potevi farci nulla, Jean-Paul Belmondo conservava lo sguardo scanzonato di chi aveva fatto il militare in Algeria e poi si era diplomato al Conservatorio quando il cinema era ancora in bianco e nero.
Era come se dicesse: voglio solo portare un po' di colori accesi. Lo ha fatto ed erano accesissimi come i colori dei bolidi che gli piaceva guidare finché non è stato il momento di metterli in folle e farsi trasportare per sempre nella storia del cinema.
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