Cultura e Spettacoli

Il buon vecchio Maugham non è mai stato giovane

A diciott'anni si chiedeva già quale fosse il senso della vita. Fra letture, viaggi e autoanalisi, un capolavoro di cinismo

Il buon vecchio Maugham non è mai stato giovane

Ci sono scrittori, anzi dei veri e propri geni, che senza la loro opera inedita, scritta per se stessi, non sarebbero considerati tali. Basti pensare a Giacomo Leopardi senza Lo Zibaldone (grazie al finanziamento di Silvio Berlusconi tradotto completamente in inglese, ogni tanto ricordiamolo), o a Paul Valéry senza i suoi Quaderni (che Adelphi sta traducendo da anni in diversi volumi). Ci sono poi altri scrittori i cui diari sono quasi più belli delle loro opere, come quelli di Cesare Pavese o di Guido Morselli (entrambi terminano con il suicidio programmato degli stessi, il che li rende ancora più interessanti).

Anche W. Somerset Maugham aveva del materiale inedito, ma non con scopo diaristico, piuttosto per prendere appunti, annotare riflessioni, buttare lì ragionamenti per proprio uso e consumo, fino a che non ha deciso, in vita, di selezionare questi materiali e pubblicarli, ora in libreria con il titolo Taccuino di uno scrittore (Adelphi, pagg. 412, euro 24). Dentro c'è di tutto, visto che Maugham cominciò a tenere un taccuino fin dal 1892, quando aveva solo diciotto anni. Aforismi, ritratti, ragionamenti su letteratura e filosofia, aneddoti di ogni genere da ogni luogo del mondo.

Già nel 1896 il giovane Maugham è a Capri, chiedendosi quale senso abbia la vita, non deve avergli messa molta allegria (anche a me i Faraglioni non sono mai piaciuti, figuriamoci oggi che sono diventati uno sfondo da selfie), tanto meno una gita sul Golfo di Napoli, con mare mosso, dove «i napoletani hanno vomitato enormi piatti di maccheroni indigesti, in accessi improvvisi, come quando l'acqua sgorga da una tubatura scoppiata... con le loro bocche spalancate avevano l'aria agonizzante dei pesci fuor d'acqua, ma non si poteva dar loro una botta in testa per mettere fine alle sofferenze come si farebbe con un pesce appena pescato - e poi non c'era nulla con cui colpirli». Maugham, fin da giovane, ragiona sull'essere umano in modo molto lucido, disincantato e cinico, e della stupidità aveva capito tutto anche senza Facebook e Twitter, come quando annota che «la stragrande maggioranza delle persone fa un uso alquanto ignobile della porzione di intelligenza che le resta dopo aver provveduto alla conservazione di sé e alla propagazione della specie».

Nel 1917 legge e rilegge i russi, soprattutto Dostoevskij, senza alcun incantamento da letterato, ma analizzando piuttosto come la narrativa russa manchi di varietà di tipi umani: «si incontrano sempre le stesse persone, sotto nomi diversi, non solo nelle diverse opere del medesimo autore, bensì in autori diversi... Alësa e Stravogin sono i due tipi prevalenti e più caratterizzati, sembrano infestare l'immaginazione degli scrittori russi». Trova anche che con Dostoevskij non si possa mai ridere, perché «l'umorismo di Dostoevskij è l'umorismo di uno scioperato da bar che lega un barattolo alla coda di un cane». Maugham, sostanzialmente, riduce la tanto declamata polifonia di Dostoevskij, e la letteratura degli scrittori russi in generale, a un «morality play», ossia un semplice gioco di pedine morali mai davvero in contraddizione con se stesse.

Dal 1941 in poi il taccuino di Maugham si fa molto più introspettivo, e anche autoanalitico, e assai poco indulgente. Dovrebbero leggerlo molti politici e opinionisti che di questi tempi parlano di tutto. «Quando ero giovane, pretendevo di sapere tutto. Per questa ragione mi trovavo spesso in imbarazzo e facevo la figura dello stupido. Una delle scoperte più utili che ho mai fatto credo consista nella facilità di dire Non lo so». Lettura educativa perfino per i filosofi, dopo che Vattimo, Agamben e Cacciari, pur di inserirsi nel dibattito, si sono messi a parlare di scienza.

È un taccuino, quello di Maugham, che attraversando un'intera vita è denso di considerazioni su ogni argomento che vanno dalla giovinezza alla vecchiaia, tra lunghi pensieri e brevi considerazioni dal taglio aforistico. Per esempio quando, con l'avanzare dell'età, nota che «una delle tragedie degli esseri umani sta nel fatto che continuano ad avere desideri sessuali anche quando hanno smesso da tempo di essere sessualmente desiderabili» (la tragedia dell'Animale morente di Roth, insomma).

Maugham muore nel 1965, ma a dare credito al taccuino muore molto prima, nel 1944, quando compie settant'anni. La cosa non stupisce: in fondo uno scrittore muore quando ha scritto tutto quello che voleva scrivere, per il resto sopravvive come un essere umano qualsiasi. «Ieri ho compiuto settant'anni. È naturale, anche se forse irrazionale, attribuire un significato speciale all'inizio di un nuovo decennio. Quando compii trent'anni mio fratello mi disse: Ora non sei più un ragazzo, sei un uomo, e devi comportarti da uomo. A quarant'anni dissi a me stesso: Questa è la fine della giovinezza. Al cinquantesimo compleanno mi dissi: Inutile prendersi in giro: qui inizia la mezza età, tanto vale ammetterlo. A sessanta: È ora di mettere ordine nei miei affari, perché mi trovo sulla soglia della vecchiaia e conviene regolare i conti. A settant'anni non si è più sulla soglia della vecchiaia, si è vecchi e basta».

Da quel momento Maugham scopre la biologia e l'insensatezza dell'universo (cosa non comune per un letterato, di solito in vecchiaia si attaccano a Platone), non sa più chi frequentare perché i vecchi come lui lo annoiano e i giovani teme di annoiarli lui, ma la cosa non rappresenta un problema. «Stando così le cose, potrebbe sembrare ben misera la prospettiva per il vecchio, quando i giovani smettono di apprezzare la sua compagnia e lui trova noiosi i suoi coetanei.

Non gli resta che la compagnia di se stesso, e io mi considero singolarmente fortunato perché mai la compagnia altrui mi è stata gradita più della mia».

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