Tra gli autori di quella generazione dei nati tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, Matteo Marchesini (che è del 1979) è indubbiamente tra i più consapevoli. Ha scritto libri di poesie si ricordino Marcia nuziale (Scheiwiller, 2009) e il recente Cronaca senza storia (Elliot, 2017) e di narrativa, come il romanzo Atti mancati (Voland, 2013) e i tre racconti di False coscienze (Bompiani, 2017). Da qualche anno, dalle pagine de Il Foglio e Il Sole 24Ore, sta compiendo un lavoro di rilettura del Novecento italiano che in gran parte è confluito nel suo libro Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia (Quodlibet, 2014). Sono ritratti di narratori, poeti e saggisti molto spesso fuori dal coro, o quanto meno considerati marginali (o, peggio, minori) e penso, tra gli altri, a Noventa, Delfini, Malaparte ecc.
Nelle sue intenzioni mi sembra ci sia qualcosa di più, o di diverso, dalla ridefinizione di un canone...
«Canone è una parola magica e minacciosa. Ciò che resta ha a che fare con un valore, ma la definizione di questo valore dipende molto dalla storia che sta fuori dai testi; e anche la meno cruenta, si sa, è storia di eserciti e di vincitori. A me interessa il rapporto tra cultura e potere. È un tema vecchissimo e sempre nuovo, soprattutto quando si contrabbanda per oggettivo ciò che non lo è. Che il gusto mio o di altri sia diverso da quello di qualche canone prevalente, non importa granché. Ma importa sapere di quale cultura, di quale organizzazione dei poteri e della società è frutto e sintomo quel canone. E di quali rimozioni».
Nella premessa del suo Soli e civili, nel quale ritraeva cinque intellettuali italiani del Novecento - Savinio, Noventa, Bianciardi, Fortini e Bellocchio - scriveva che in essi individuava una capacità «demitizzante e demistificatoria» e aggiungeva che era una dote oggi più che mai necessaria. Perché?
«L'organizzazione mediatico-editoriale e quella scolastica, che mette le note in calce ai prodotti imposti dalla prima, schiacciano a tenaglia il senso critico e mitizzano immediatamente tutto. Anziché chiedersi se davvero conoscono l'Otto-Novecento, e anziché ricordare che persino i classici sono passati attraverso secolari montagne russe, molti letterati sono pronti a dare il Nobel (gemito) a Valerio Magrelli, come qualche tempo fa (altro gemito) l'avrebbero dato a Tabucchi. Il problema non è esibirsi in qualche provocazione, che diventa a sua volta parte di un dibattito degradato a sketch, ma riportare all'attenzione le domande rimosse, sotto le quali si scopre spesso la tendenza delle nostre classi dirigenti, politiche e culturali, a cambiare paradigma non attraverso una discussione critica, ma attraverso quelle che Fortini chiamava le periodiche immersioni in Lete e in Eunoè. Esempio minimo. Tempo fa è uscita una monografia su Gadda firmata da uno studioso stimabilissimo. Cita parecchi titoli recenti e inutili, ma mai due straordinari saggi in parte antigaddiani, quelli di Cases e Baldacci».
La gran parte degli autori del Novecento associava alla scrittura creativa il ragionamento analitico. Eppure, oggi i narratori italiani, specie delle nuove generazioni, sembra che ignorino quasi completamente il discorso critico.
«Tutto va bene purché funzioni. Un narratore può crescere su qualunque radice. Può nutrirsi di classici, di mille letture o di pochissime, di tv o di calcio, può immergersi nel gossip culturale o isolarsi, e addirittura nascere intero dal ventre delle sole esperienze esistenziali. Posto che il commercio con la buona letteratura favorisce il mestiere, calcolare i destini è impossibile. Ma un narratore anche non letterato, o un poeta, devono contenere un critico in potenza, questo sì. Mi capita di frequentare sia il mondo dei narratori sia quello dei poeti: nel primo si parla quasi solo di agenti, premi, contratti, editor; il secondo fa pensare ai giochi della gioventù e all'estate ragazzi. Così in genere mi trovo meglio con i saggisti; però i miei più o meno coetanei, di solito, si tengono comprensibilmente alla larga da narrativa e poesia, e per i miei gusti temono troppo il pathos. Insomma, non trovo una casa».
Lei ha denunciato più volte il narcisismo portato all'esasperazione di alcuni scrittori che hanno costruito o alimentato il loro successo - se di successo si può parlare - sui social network. Vuole spiegarci meglio in cosa consiste?
«No, mai fatta questa denuncia: non conosco bene l'attività facebook degli scrittori, e in sé non mi interessa granché. Ho scritto invece sui social, sineddoche di un mondo in cui tutto diventa insieme intimo e autopromozionale. Quanto alla letteratura, trovo insopportabile il modo approssimato con cui molti usano il termine narcisismo, magari senza accorgersi che negli ultimi decenni riguarda non tanto chi parla della propria vita quotidiana ma chi si autopromuove attraverso un tartufesco engagement midcult e un'idea stereotipata di realtà. Ogni attività pubblica richiede un certo grado di autorappresentazione; la patologia inizia quando le forme dell'autorappresentazione non si giustificano più con l'opera che dovrebbero accompagnare. Passando dagli autori ai testi, il problema non è il narcisismo ma cosa se ne fa. In Saba e in Proust diventa un formidabile strumento di conoscenza, perché è visto, analizzato, affrontato; Carlo Levi e Malaparte, invece, non lo staccano da sé, e così fingono oggettiva una immagine falsamente onnipotente dei loro alter ego».
Alla poesia ha dedicato un libro teorico, Poesia senza gergo. Sugli scrittori in versi del Duemila. La proliferazione dei poeti è coincisa con un allontanamento pressoché totale dei lettori di poesia. Cosa è successo?
«Dopo gli anni Settanta si è rapidamente ridotto il peso della letteratura dentro l'insieme della cultura. Gli scacchi del Novecento non sono stati superati ma ignorati in malafede: prima di tutto la sensazione, già registrata da Leopardi, che nell'epoca moderna rimanga pochissimo spazio per reali esperienze estetiche. Verso gli anni Ottanta il romanzo è rinato seriale, e la poesia privatistica: da una parte, appunto, i manager, dall'altra i giochi di ruolo. Entrambi i generi hanno perso l'attrito con la storia. Ora poi abbiamo un nuovo kitsch sfacciato: rimando al personaggio di Lojacono nel mio False coscienze».
Le mode letterarie non solo le tendenze del mercato sono difficili da scardinare. Ci sono autori che spesso percepiamo come sopravvalutati ma intoccabili; ed altri che, nonostante meritino attenzione, vengono ignorati. Dove e in quali autori individua queste tendenze oggi?
«Quando ha forze smisurate, ogni maggioranza si crea un'opposizione a sua immagine ogni mainstream le sue nicchie. Per passare dalla cruna della pubblicità culturale, oggi serve un pittoresco da letteratura come pro loco: eccovi il paesologo, il venditore di visceri, l'esperto di Sud, il cantore del precariato o dei misteri d'Italia. Lo stesso vale per gli stili che diventano marche, creando identità aberranti. In più, scrittore viene considerato sinonimo di romanziere. Di recente diverse persone mi hanno chiesto nomi di bravi scrittori italiani delle ultime generazioni. Ho parlato ad esempio dei versi di Paolo Maccari e della prosa saggistica di Guido Vitiello. Reazioni: Ah sì, certo (occhio sfuggente). Poi, negli articoli, i miei interlocutori hanno continuato a citare solo romanzieri. Se mi avessero detto: No, ma che dici? sarebbe stato meglio. Ma il loro non è un no. Solo, non hanno idee sufficientemente forti da opporsi a un'opinione corrente a cui pure non credono abbastanza. Allora dibattere non serve più.
E serve in generale poco quando i riflessi più tipici dell'ambiente sono o un atteggiamento alla Gianni Morandi - Dài che ce la facciamo a valorizzare insieme le cose belle!, con colpevole confusione tra discussione e organizzazione di eventi - o un atteggiamento alla Tarantino - Che cazzo hai fatto tu nella vita per parlare, eh?. Spesso, sintomaticamente, i due atteggiamenti convivono nella stessa persona: e sono entrambi il contrario del senso critico».
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