«Patria» in Italia è una parola che si fatica a pronunciare. Per paura di cadere nella retorica ma anche per paura di accorgersi che è una espressione vuota. La segreta memoria delle autonomie che precedono il Regno d'Italia è ancora forte... Massimo Zamboni, ex fondatore di CCCP e CSI, due gruppi fondamentali per la storia della musica italiana, da tempo ha intrapreso una carriera solistica stimolante e controcorrente per molti versi. Oggi pubblica l'album La mia Patria attuale, e noi infiliamo il disco direttamente nello scaffale dei classici italiani (italiani lo aggiungiamo solo per via del titolo). Per Zamboni è (quasi) una svolta: concentrato più sulla voce che sulla chitarra, da un lato non dimentica le sue origini (vedi brani come il Canto degli sciagurati) dall'altro riscopre i cantautori italiani, da Fabrizio De André a Francesco Guccini. Senza contare Franco Battiato, che a fatica rientra nella categoria, appunto, dei cantautori.
Cosa significa Patria per Lei? È l'Italia o è (anche) la sua piccola patria, l'Emilia?
«Faccio fatica a non pensarmi come emiliano, quindi anch'io, come moltissimi, sono costretto tra questi due poli. Ho una piccola patria sotto i piedi, che adoro, nonostante i problemi. E ho una grande patria, intorno a me, che a volte fatico a chiamare tale, con la quale però sento l'obbligo di confrontarmi, che poi è un obbligo collettivo. Sembra una creatura a parte, rispetto ai suoi stessi cittadini. La riconosciamo tale in poche occasioni, sportive o tragiche. Per il resto, sentiamo questa parola che rimbalza nelle cronache delle televisioni o in bocca ai politici. Ma in qualche modo è una presenza estranea, e questa non è una gran consolazione, a quasi ottant'anni dalla fine della Seconda Guerra mondiale, dalla Resistenza in cui i partigiani, al di là delle idee diverse, si chiamavano patrioti, dalla scrittura della Costituzione».
Cos'è successo da allora?
«Questa parole si è smarrita per strada, masticata da troppe bocche per tornaconto personale. L'abbiamo vista umiliata e calpestata con sopruso in troppe occasioni, io sono reggiano, dai moti di Reggio Emilia, alle bastonature e alle bombe degli anni di piombo. Eppure siamo italiani, siamo visti dall'estero come italiani, e dunque l'Italia, la patria, è un concetto ancora inconcluso, da capire».
Una parte politica però fatica a dire: Patria.
«La sinistra, certo. Ma è comprensibile. Patria è anche la parola pronunciata dagli ufficiali quando fucilavano alla schiena i soldati che non accettavano di uscire dalla trincea nella Prima guerra mondiale. Patria sono i Savoia che scappano nel momento della disfatta. Volendo estremizzare, Patria è anche la Fiat che se ne va negli Stati Uniti quando capisce che l'Italia non rende più abbastanza».
Ma la Patria, in questo momento, ci è nemica o ci è amica?
«Noi spesso confondiamo la Patria con lo Stato e le istituzioni. Io credo che gli italiani sentano lo Stato come creatura ostile, fonte di tassazione e burocrazia. È facile traslare questa idea di Stato e darle il nome di Patria. Ma non è così. La Patria è un concetto ben più profondo, e non a caso c'è chi ha dato la vita per affermarlo. Nel nostro Paese ci sono tante persone intelligenti e talentuose che si sacrificano, che difendono quello che fanno. In loro identifico una possibilità di Patria che vada al di là dello Stato».
Se guardiamo cosa succede nel dibattito pubblico, l'Italia si direbbe quanto mai divisa, litigiosa, disunita, tenuta assieme dal disprezzo reciproco prima fascisti-antifascisti, oggi No Vax - Sì Vax...
«Siamo un popolo di tifosi, giochiamo sempre su due sponde che si combattono. Non credo ci sia mai stato un Paese unito, non c'è mai stato neppure nel primissimo dopoguerra, la classe dirigente fascista ha cambiato casacca, ma non c'è mai stato un momento di confessione, non c'è mai stata possibilità di un perdono e di una pacificazione. In altri Paesi, mi viene in mente il Sudafrica, questo è accaduto. Ma forse paghiamo anche l'assenza di leader politici di prima grandezza».
Veniamo alla musica. Parliamo della produzione: non sono molti i dischi italiane a suonare così bene, specie le chitarre.
«Il produttore, Alessandro Asso Stefana, è un ottimo chitarrista. Ci siamo conosciuti sul palco di Vinicio Capossela, mi sono trovato benissimo con lui, è un maestro».
Lei non ha suonato la chitarra?
«Poco. Mi sono concentrato sulla voce, ero molto deciso su questo punto».
A chi si è ispirato?
«Ho sempre ascoltato poco i cantautori, è un tipo di musica che non mi ha mai coinvolto, non mi ha mai consolato, non è mai stata utile alla mia vita. Escludiamo Battiato, non riesco a considerarlo un cantautore in senso stretto. Si sente forse il De André di Creuza de ma, l'unico De André che io abbia amato».
Ma allora perché una svolta verso il cantautorato?
«Perché è la maniera italiana di porsi verso la musica, puntare sulle voce e sulle parole, e questo è un disco sulla Patria. Niente chitarroni, niente punk, niente elettronica. Sentivo il bisogno di comunicare faccia a faccia con ascoltatori italiani, i compatrioti».
Come mai questo desiderio di parlare a tutti gli italiani?
«C'entra il senso di solitudine, che precede la pandemia ma è stato amplificato
dal Covid. Credo ci sia una sensazione diffusa in Italia di essere soli. Per cui c'è il bisogno di guardarsi, di confrontarsi. Vorrei che l'ascoltatore, fin dal primo brano, si ricordi di questo Paese, di questa Patria».
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