Una "Canzone bretone" per ritrovare l'innocenza

Il premio Nobel Le Clézio racconta i luoghi d'infanzia, ricreando un'età libera e perduta

Una "Canzone bretone" per ritrovare l'innocenza

«La nostalgia è un sentimento che non fa onore» scrive a un certo punto in Canzone bretone (Rizzoli, pagg. 186, euro 18, traduzione di Simona Mambrini) J.M.G. Le Clézio: «È una debolezza, un'insofferenza che distilla amarezza. Un'incapacità a vedere ciò che esiste, rimasta nel passato quando l'unica verità è il presente». Poche pagine più avanti, nel rievocare «un eroe» della sua infanzia, un pescatore che era anche un avventuriero e un pittore della domenica, Hervé, questo è il suo nome, Le Clézio torna ancora sul tema nell'intento di chiarirlo meglio, ma in realtà intorbidandolo: «Non è per amore di nostalgia che vorrei ripercorrere questa storia, unire i segmenti, ritrovare il flusso della vita. È per rendere conto dell'antica magia, per vederla riapparire sotto il riflesso illusorio del presente».

In realtà, l'intero Canzone bretone è intriso di nostalgia e ogni volta che lo sguardo si posa sul presente è per ritrarsene spaventato dallo spettacolo che gli si para davanti: «Un vento violento ha spazzato l'intera Bretagna, scompigliando da cima a fondo le istituzioni, confondendo l'attrattiva della modernità con la vergogna delle proprie origini, assimilando il retaggio ancestrale alla paura dell'arretratezza, paventando l'abietta povertà in cui, per secoli, le popolazioni rurali avevano dovuto sopravvivere e che lo Stato, per timore di fratture identitarie, aveva mantenuto». E ancora: «Le leggi europee formulate da tecnocrati hanno compromesso uno stile di vita atavico e i pescatori bretoni sono stati indotti ad abbandonare le loro barche per diventare operai al servizio dell'industria conserviera, e i porti un tempo così dinamici sono diventati dei depositi per poi ridursi all'inattività».

Canzone bretone si compone di due testi: il secondo, Il bambino e la guerra, è legato al primo non geograficamente e neppure cronologicamente: «Non seguirò un ordine cronologico. I ricordi sono noiosi e i bambini ignorano la cronologia. Per loro i giorni si susseguono ai giorni, non per costruire una storia ma per espandersi, occupare lo spazio, moltiplicarsi, frastagliarsi, riecheggiare». Nato nel 1940, il bambino Le Clézio trascorre gli anni del conflitto a Nizza. La Bretagna arriverà dopo, dal 1948 al 1954, e solo durante l'estate: nel 1947 il padre di Le Clézio, ufficiale medico di nazionalità britannica, che per tutta la guerra era rimasto separato dalla famiglia, decide di portarla in quell'Africa dove era rimasto bloccato, di ricongiungere insomma quel filo familiare che la guerra aveva troncato per così tanto tempo: la Francia, la Bretagna diverranno così la terra delle vacanze... Il passaggio dal Vecchio continente martoriato dal conflitto al nuovo mondo, coloniale sì, ma ancora vergine e ancora barbarico sarà per il piccolo Le Clézio un salto di civiltà in positivo: «Siamo arrivati in Africa, due ragazzini smunti e ignoranti, pieni di rabbia e di ribellione. Oggi ci riconosco nelle immagini dei bambini dei migranti (...) Come loro porto vestiti rattoppati (...) Come loro abbiamo bisogno di rivalerci su qualcosa, di picchiare, di gridare, di mordere (...) La differenza, però, è che noi venivamo dall'antica Europa, la parte più sviluppata del mondo, che ha usato il progresso tecnologico solo per produrre strumenti di morte. Sarà l'Africa a civilizzarci. In Africa, il continente oggi dimenticato, avremmo conosciuto per la prima volta la libertà, il piacere dei sensi, l'esuberanza della natura».

In quel «solo per produrre strumenti di morte», così come nel far finta che un'emigrazione forzata sia la stessa cosa di un'emigrazione voluta, ci sono alcune delle note stonate che fanno di Il bambino e la guerra una prova di virtuosismo stilistico che non va però mai oltre la superficie delle cose. Non volendo scrivere «ricordi d'infanzia», memore anche, «con un pizzico di vanità», dell'avvertimento poetico di Lautréamont, «non lascerò memorie», Le Clézio allinea una serie di considerazioni, fra luoghi comuni e ovvietà, proprie dell'età adulta: «La guerra è la cosa peggiore che può capitare a un bambino», «in una guerra i bambini non sanno niente della realtà», «la guerra è grigia», «la guerra uccide i bambini». E ancora, un po' contraddicendosi: «Potrei dire, come Radiguet nell'incipit di Il diavolo in corpo che la guerra era per me (per i bambini) quattro anni di ininterrotta vacanza?», «per i bambini tutto quello che succede è normale», «la guerra conserva una certa nobiltà», «un'atmosfera dolce», «sicuramente molto dolce» eccetera.

L'impressione è che questo testo e l'altro, Canzone bretone, appunto, stiano insieme più per necessità che per scelta. Il primo appartiene a un'età dove il ricordo non esiste, esiste solo la sua ricostruzione a posteriori, che è poi una ricreazione, un creare ex novo. Il secondo, che coincide con un'infanzia e una prima adolescenza, dagli otto ai quattordici anni, ha a che fare con una Bretagna irreale per quanto teoricamente familiare. È stato uno degli avi di Le Clézio a spezzare questo cordone ombelicale quando, repubblicano ai tempi del Terrore rivoluzionario, lascia la Francia per le colonie e costringe quelli che verranno dopo di lui a «inventarsi altre radici». Ciò fa di Canzone bretone un testo ineguale, con un paio di capitoli di attualità, quello sull'autonomia in particolare, che sembrano come incollati a forza rispetto allo scrigno da cui Le CLézio tira fuori le sue pepite d'oro del ricordo di un'epoca in cui tutto ti incanta e insieme ti intimorisce, lasciandoti però sempre l'eccitazione della scoperta come del pericolo. «Quando vengo da solo, con la bassa marea, entro nella pozza del polpo, i tentacoli delicati spuntano fuori dal buco, mi toccano i piedi, mi si attorcigliano intorno alle caviglie. Appena mi muovo, si ritraggono di scatto. Allora resto immobile nel rumore del vento e del mare. Oggi, domani, tutta la vita l'incontro è possibile».

Premio Nobel, scrittore nomade per eccellenza, vincitore di un premio Renaudot a 23 anni, con Le procès-verbal, tutta la narrativa di Le Clézio, da Désert a La quarantaine, Onitsha, Ritournelle de la faim, si muove intorno a un viaggio iniziatico che, come nel caso di Canzone bretone, parte da una memoria ricostruita per cercare altrove la luce e la libertà. Un anti-materialismo di fondo, ne colora sempre e comunque le pagine.

Ciò che però emerge, anche da questi suoi due ultimi racconti, per diseguali che siano, è quella musica dell'innocenza che rimanda a un'infanzia dove ancora tutto sembra possibile, prima che vengano la maturità, l'esperienza e quindi la vita, a presentarti il conto.

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