Carissimo Giovanni Arpino, due sono le immagini che ci vengono agli occhi quando capita tra le mani un Suo libro. La lunga, coloratissima fila di macchine per scrivere in una stanza della Sua casa-archivio a Bra, il paese all'ombra delle colline da cui tutto è iniziato per la Sua famiglia e per Lei (piemontesissimo nato per sbaglio a Pola) e dove alla fine, Lei giramondo del giornalismo e bracconiere di personaggi, tornava sempre, dalla bellissima moglie Caterina e l'amatissimo figlio Tommaso, oggi curatore della Sua memoria: quelle Olivetti, che Lei batteva con la stessa inesorabile precisione con cui batte un metronomo, sono il simbolo materiale della Sua scrittura fatta di fatica, rinunce (è Lei stesso che ci ricorda che scrivere è un lavoro da dannati), ordine, rigore, esattezza. Si chiama Letteratura. La seconda immagine è una foto, chissà che anni erano (i Settanta?), che La ritrae nella tribuna stampa di uno stadio - Lei scrisse magnificamente di sport - occhiali scuri sopra la testa, la perenne sigaretta accesa e lo sguardo affilato, che arriva lontano, dove noi non vediamo, e che sa cogliere il dettaglio, come un cecchino. Si chiama classe.
Lei, in fondo, è stato uno dei primissimi della Sua classe, anni Cinquanta-Ottanta, la generazione dei veri scrittori del nostro '900. Un po' come il Rinascimento: mai visti così tanti e così grandi nomi in tre-quattro decenni. E Lei, poi, prima firma di tanti giornali e autore di razza di trenta fra romanzi e libri di racconti, è tra i pochissimi ad aver vinto sia lo Strega sia il Campiello. Ci vuole stile.
Lei, Egregio dottore (in Lettere, all'Università degli Studi di Torino con una tesi su Sergej Esenin, nel 1951), ha uno stile personalissimo, una scrittura sempre alta, che tocca l'epico quando narra di calcio e il filosofico quando tocca la vita quotidiana, un passo inarrestabile nel raccontare storie e un occhio assoluto nello scoprire e poi disegnare i caratteri umani. Ecco perché è impagabile il piacere di sfogliare i ritratti dei personaggi illustri del Suo tempo che Lei incontrò, sulla carta, quando per il settimanale Tempo di Alfio Tofanelli, tra il 1964 e il 1965, tenne una celebre rubrica di cui ci eravamo tutti dimenticati, ma che ora torna per la prima volta in forma di libro: Lettere scontrose (minimum fax). Come scrive nella postfazione Bruno Quaranta, un amico che La conosce bene, e da molto tempo, sono «lettere intonate allo spigoloso carattere del committente, al suo spirito ingenuo, ossia non genuflesso». Lettere solo apparentemente scomode, appena appena irriverenti, sempre divertenti (altre persino profetiche) ma, come Lei stesso - caro Arpino - scrive nella prima missiva, indirizzata a Amintore Fanfani, sempre pervase da «un'elementare esigenza di giustizia e un minimo di civile indignazione».
Eccole qui, le lettere, da scegliere come ci piace, a seconda della simpatia per il destinatario. Monica Vitti, Vittorio Gassman (ce ne voleva di incoscienza e di sfacciataggine, all'epoca, per fare il contropelo a un tale mito... Il quale infatti reagì nelle settimane successive con telefonate indignate e battute in tv...), e poi Aldo Moro, Juliette Gréco, persino i Beatles!, che Lei alla fine giudica con estrema simpatia, il presidente della Corte d'assise di Francoforte (al quale rinfaccia la mitezza delle pene comminate ai responsabili di Auschwitz), o Georges Simenon (a proposito, complimenti: quando Lei scrive che «è giunto il momento del giallo all'italiana, un giallo condito di bontà, di strizzatine d'occhio, di furberie che si sommano l'una sull'altra, di omertà che stendono i fili di una ragnatela sempre più larga», non poteva sapere che da lì a poco sarebbe arrivato un Andrea Camilleri col suo Montalbano...); e poi Totò (l'unico che Le risponderà, con una magnifica lettera, qui pubblicata per la prima volta e il cui originale da anni è appeso in cornice a una parete della casa di Bra), e ancora: Sartre (al quale rifaccia giustamente che i suoi allievi sono stati forse peggiori dei suoi nemici), Herrera (che mette in guardia dal rischi che il calcio possa diventare un giorno più business che sport), la Bardot (che intuisco Lei preferisca alla Loren), Frank Sinatra, De Gaulle (che capisco Lei non sopporti...), il vecchio scugnizzo Omar Sivori...
Leggendola, colpisce non solo la precisione con cui coglie le debolezze e le eccezionalità, il lato geniale e quello più ordinario, del grande personaggio, le piccole umane miserie, gli indubbi talenti e il fascino che irraggiano sui fan e le persone comuni. Ma soprattutto, quando scrive di politici, attori, scrittori e sportivi italiani, la Sua capacità di radiografare in modo spietato e chirurgico gli eterni mali che affliggono il nostro Paese. In cui si vive come in un'eterna commedia che ha sempre lo stesso finale.
Lo sa, dottor Arpino, di cosa si discute da giorni sui nostri giornali? Del fatto che non può esistere una vera classe dirigente senza una solida cultura generale. Oggi un noto editorialista, su un notissimo quotidiano, in prima pagina ha scritto che per i nostri politici «È indispensabile un'ampia preparazione basata sulle materie umanistiche»... E Lei, già nel 1965, all'onorevole Mariano Rumor, potentissimo segretario della Dc, raccomandava di obbligare tutta la sua corte di deputati a imparare Dante a memoria e a studiare le Operette morali di Leopardi, «non tanto per istruirli, quanto per spronarli a una giusta concezione della politica, per farne uomini la cui cultura non rimanga deposito di piacevolezze serotine, ma fermento vivo nella pratica quotidiana». È lo stesso anno in cui Lei trafigge l'allora famoso e oggi carneade senatore Pafundi, presidente di una delle tante (vacue) commissioni antimafia della nostra disgraziata Repubblica, paragonandolo al bibliotecario senza volto di Borges: entrambi si muovono, uno fra le sue carte l'altro fra la sua biblioteca, «senza fine, senza principio, senza senso».
Se c'è uno scrittore che ha saputo scandagliare l'animo umano dei propri connazionali, continuando ad amare l'Italia pur scoprendo ogni giorno un nuova pecca, è Lei, caro Arpino. E speriamo di non deluderLa troppo dicendole che, cinquant'anni dopo, non siamo allo stesso punto. Ma persino più indietro.
Ho apprezzato molto la Sua riflessione a margine della lettera indirizzata all'arbitro Lo Bello: «La cupidigia di farsi amici dell'arbitro è un vizio che gli italiani - non tutti, ma neppure pochi - conoscono almeno dai tempi di Nerone». Oggi, se permette, estenderei il concetto ai giudici.
Così come mi ha divertito leggere, per una volta, che anche quel prototipo perfetto dell'italiano medio che è Alberto Sordi, alla lunga stanca: «Costretto a limare all'infinito mosse e mossette che strappano ancora il sorriso, non più il riso». Come dire, va bene il saper prendere in giro i difetti nazionali, però poi bisogna anche provare a correggerli.
Così come abbiamo condiviso appieno l'elegante consiglio regalato, dopo averla giustamente lisciata, a Sofia Loren: di pagare le tasse. Un vizio, per noi italiani, ancestrale.Per il resto, accetti i saluti da un Suo affezionato lettore.
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