Cultura e Spettacoli

Carlo Tognoli, il socialista riformista che cambiò Milano

In un decennio difficilissimo traghettò la città dal terrorismo all'innovazione

Carlo Tognoli, il socialista riformista che cambiò Milano

Nella scena primaria di Sigmund Freud, la bambina vede dal buco della serratura il groviglio dei genitori e ne ode i gemiti facendosi idee sbagliatissime su quel che accade. Nella scena primaria della politica italiana, si vede la crepa che diventa la spaccatura e poi una voragine fra socialisti e comunisti, figli insieme ai fascisti di una stessa madre consanguinea a tutti, quella socialista. E l'occhio di Michelangelo da cui cogliere la prospettiva è Milano. La Milano degli anni Ottanta, quando ancora l'impero sovietico traballava ma dava colpi di coda (l'Afghanistan fu invaso nel 1979) e in Italia era fallito il compromesso storico, mentre regnava come elemento del tutto nuovo la Pax socialista. Con Bettino Craxi a Palazzo Chigi per quattro anni e Sandro Pertini al Quirinale per sette.

La Fondazione Craxi pubblica un libro straordinariamente fresco, limpido, autentico e frutto di una intelligenza onesta, quella del sindaco di Milano Carlo Tognoli (lo fu per dieci anni, dal 1976 al 1986), caduto fra le vittime del Covid (è morto il 5 marzo di quest'anno) e che tutti ricordiamo per quella composta mitezza da non confondere con arrendevolezza: Carlo Tognoli, Senza promettere la luna. Scritti di un riformista milanese (Baldini+Castoldi, pagg. 384, euro 19; a cura della Fondazione Bettino Craxi).

Come amministratore, Tognoli riportò la capitale morale ai fasti dell'antica e poi persa e poi ritrovata dignità. Come storico - il libro raccoglie in forma ordinata una miscellanea di scritti in buona sequenza - Carlo Tognoli si rivela ottimo, riportando al centro la palla. Ricordiamo i contorni del campo: il terrorismo rosso, in buona parte eterodiretto dal Kgb e dal Gru sovietici che riuscirono a far abortire l'ingresso del Pci nel campo occidentale, benché Berlinguer avesse dichiarato a Giampaolo Pansa di sentirsi più protetto dalla Nato che dai sovietici. Fu anche a seguito di questo fallimento che i rapporti fra socialisti e comunisti erano diventati una rissa e poi una guerra. Bettino Craxi era apertamente trattato come la riedizione di Mussolini (le vignette di Giorgio Forattini con Craxi in fez e stivaloni) e soltanto una pattuglia di «miglioristi» nel Pci guardava a un futuro socialdemocratico e dunque anche al Psi di Craxi, ma sempre con livore, invidia e gelosia. Il motto «Milano da bere» fu coniato e riprodotto come uno slogan rafforzato dall'«edonismo reaganiano» di Roberto D'Agostino, allora arruolato nella banda di Renzo Arbore, il quale era ed è un liberale.

Milano aveva ripreso a produrre ricchezza. La ricchezza produceva bellezza e anche lusso, voglia di chiudere il capitolo dell'Italia grigia e sottomessa dalla paura dei fantocci del terrorismo nazionale e internazionale. Quando l'ultima impresa dei terroristi, il rapimento del generale americano Dozier, fallì, fu dichiarata la vittoria e la pace dell'Italia che aveva ben resistito. E fu festa. E furono le televisioni di lustrini, l'elogio dell'eros, l'elogio del futile che è molto più necessario del necessario, l'elogio della normalità. Bettino Craxi aveva rimosso le ferraglie dei simboli sovietici che avevano appesantito il partito che non era della falce e martello, ma del Sol dell'avvenir oltre un grande libro aperto per significare che la cultura è rivoluzione e la verità è libertà.

I comunisti stridevano molto e del resto era all'orizzonte il colpo di coda delle Ardenne: l'operazione «Clean Hands», «Mani pulite», maturata negli Stati Uniti con l'aiuto di molti procuratori italiani onesti come Falcone, anche se lo scopo dell'operazione non l'aveva ancora capito nessuno: ci volle la lucida follia di Francesco Cossiga per lanciare l'allarme e subito vedersi trattato come un pazzo furioso.

Il messaggio di Cossiga era stato chiaro: l'Italia durante la Guerra fredda fra il 1947 e il 1989 era stato un «Paese cerniera» fra Est ed Ovest e la sua classe dirigente, per lo più democristiana, aveva usato quella posizione di privilegio per andare a letto col nemico, trescare con i sovietici alle spalle degli americani, fare una politica pro-palestinese ma anche filo-israeliana e quanto agli americani aveva seguito gli istinti. Americani, inglesi, francesi e tedeschi della Repubblica federale non vedevano l'ora di fare piazza pulita dei dirigenti italiani e aspettavano che i comunisti di Berlinguer si decidessero a varcare il guado, rompendo con Mosca, cosa che non avvenne mai. In più, Enrico Berlinguer aveva preso le distanze dalla rivoluzione bolscevica di cui vedeva l'esaurimento della spinta iniziale, si era gettato nella politica degli «ariani del bene», sostenendo che «soltanto i comunisti hanno le mani pulite». Cosa che poi si rivelò del tutto falsa, e anche impunita. Tutti i partiti salirono sul palco del carnefice ma non il Pci, riciclato in fretta e furia in Pds e destinato a vivere con la sua gioiosa macchina da guerra, sconfitta dall'ardimento dell'imprenditore Silvio Berlusconi che batté tutti in creatività e rottura degli schemi, facendo fallire il piano dei comunisti «buoni» che erano attesi al governo dopo anni di corruzione, eccetera. Di lì, aggiungiamo noi, vengono anche i populismi, quello dei Cinque stelle per primo e in parte della Lega.

Milano fu il terreno di quell'aspra battaglia in cui la Giustizia si mosse con passi da dinosauro infuriato e in particolare la Procura di Milano diventò il tempio delle gesta di un pool di magistrati il cui membro più visibile fu l'ex poliziotto Antonio Di Pietro, capace di destreggiarsi come pochi nell'uso in aula di grandi computer Macintosh. Fu tutto a Milano. Ma Carlo Tognoli parte dal bandolo della matassa: da Filippo Turati che aveva colto l'unica strada che produce buona amministrazione ed evita massacri: il riformismo. Essere riformista diventò un marchio d'infamia che - quando i comunisti con Stalin si allearono con i nazisti di Hitler iniziando la guerra dalla stessa parte finché il tedesco non pugnalò il georgiano - assunse la nuova mostruosa sembianza: quella del social-fascismo. I socialisti che ambivano a governare nelle democrazie «borghesi» (altro aggettivo da evitare) furono liquidati come social-fascisti, mentre i comunisti di tutto il mondo, dal settembre 1939 al giugno 1941, non facevano che esaltare le vittorie proletarie del nazionalsocialismo tedesco.

Poi ci fu il capovolgimento di fronte, perché arrivò la parola d'ordine di tornare alla politica dei «Fronti popolari». Tognoli li passa in rassegna tutti, quei protagonisti socialisti anticomunisti e - quelli che vissero - antifascisti, da Leonida Bissolati a Filippo Turati, da Anna Kuliscioff a tutti coloro che insorsero nel Psi di fronte alla repressione sovietica della rivoluzione anticomunista degli operai e degli studenti di Budapest. Sono appunti ragionati e calmi, ma anche caldi.

Sono assolutamente attuali per chi ha meno di cinquant'anni per capire e a chi ne ha di più per ricordare.

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