Castelnuovo, «Un fiorentino a Beverly Hills»

«S olo quando l'idea che la musica contemporanea non è una, avrà corso legale, quando si capirà che il non moderno fa parte della modernità», si potranno riscoprire le cose migliori di Mario Castelnuovo-Tedesco (1895-1968). È passato mezzo secolo dalle parole di Fedele d'Amico in morte del compositore fiorentino. Le ideologie sono mutate e la musica di Castelnuovo riappare dai margini del repertorio. Una benemerita biografia di Angelo Gilardino (sottotitolata Un fiorentino a Beverly Hills, Edizioni Curci, pagg. 270, 19,00) illumina l'attività di un sinfonista ammirato da Arturo Toscanini e da solisti come Heifetz, Segovia, Piatigorsky, Gieseking. Un uomo sincero fino al candore (al ministro Pavolini, amico d'infanzia, che nel '23 lo esortava a diventare il cantore di un'Italia presente, «neo-romana, fatta di conquista e di potenza», rispondeva in nome di una civiltà più antica, quella Ebraica, capace di guardare «al passato, al presente e al futuro»). Le leggi razziali lo costrinsero all'esilio. Si guadagnò il duro pane come ghost-writer di colonne sonore e docente privato (gli allievi hanno fatto la storia di Hollywood: Henry Mancini, Jerry Godsmith, John Williams, André Previn). Sempre innamorato di Firenze, rimase retto e dignitoso, anche quando fu pugnalato alle spalle da chi ammirava di più, il suo maestro Ildebrando Pizzetti.

Questi nel '59 prima lo proclamò vincitore del Concorso Campari, poi mise il veto perché il suo Mercante di Venezia fosse rappresentato alla Scala. Rimproverandogli la prodigiosa «facilità», censurava nolente la sua stipsi.

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