Ha appena ricevuto, come lui stesso proclama con orgoglio, «un applauso lungo un giorno» da parte del pubblico del Piccolo di Milano andato letteralmente in estasi per la sua interpretazione del Teatrante. Il famoso copione di Thomas Bernhard che ha fatto il giro del mondo prima di approdare a lui, Franco Branciaroli, l'attore che l'autore austriaco dopo averlo ammirato in Confiteor, il testo più problematico di Giovanni Testori, definì «un santo di palcoscenico cui manca solo lo scettro di Carlo Magno». Ed eccolo già parlare con entusiasmo di una pièce che lo affascina ma che, con suo sommo dispiacere, non potrà mai mettere in scena, la vita di Celestino V.
Perché mai?
«Perché prevede un cast di 45 interpreti, le sembra poco?».
Mi arrendo, mi arrendo. Eppure non è la prima volta che lei affronta imprese da tutti o quasi ritenute impossibili. Sbaglio?
«Ha ragione, ma solo sulla carta. Perché stavolta il dramma di cui mi sono innamorato rappresenta una sfida impossibile».
Per il costo dell'allestimento?
«Non solo per questo, ma perché prevede sulla scena, per una durata quasi insostenibile, il complesso rapporto sofferto in prima persona da Celestino V tra la vocazione ascetica e l'elevazione al soglio pontificio. Esemplata nel Gran rifiuto, il titolo che il grande autore tedesco Reinhold Schneider ha dato al capolavoro che ho avuto la fortuna di leggere».
Può dirmi qualcosa di più sull'argomento?
«Il testo non prende posizione né a favore della gerarchia che si adoperava perché Celestino restasse al suo posto né contro la santa ingenuità dell'uomo che rifiutava il peso del potere. Un conflitto al centro del dissidio individuale ieri come oggi».
Non mi dirà che, dopo aver analizzato nel Teatrante l'eterna contraddizione tra l'attore che vuole spodestare l'autorità dello scrittore mettendosi al suo posto come unico artefice della parola, stavolta vuole cimentarsi con uno dei problemi più spinosi del cattolicesimo.
«Quale?».
La guerra ad oltranza tra l'ascetismo dell'individuo e la responsabilità toccata in sorte a chi deve guidare la salvezza eterna dell'uomo.
«Ha ragione. Proprio per questo, sono alla ricerca di testi problematici, di copioni che generino discussione, attrito, magari divisione tra agnostici e fedeli. Per contribuire al dibattito, alla presa di coscienza, a un tentativo di pacificazione».
Lei è stato l''attore-icona di Testori, l'ispiratore di testi fondamentali dello spirito sia cristiano che laico da Verbò, sintesi del tormentato rapporto tra Verlaine e Rimbaud a Sdisoré immagine di un Oreste sospeso tra la dannazione e la grazia. Pensa che prima o poi riprenderà quel repertorio?
«Perché no? Ma devo fare i conti con la mia età. Non posso più cavalcare un Amleto sui generis, ma semmai un Re Lear che dubita della follia del mondo, non le pare?».
Posso chiederle se è tuttora fedele al credo di Comunione e Liberazione o se è tentato di prenderne le distanze?
«Sono fedele e rimarrò sempre fedele alla coerenza spirituale del movimento fondato da Don Giussani. O si è cattolici o non lo si è. Non ci sono vie intermedie tra la fede che si abbraccia e quel pencolare nel dubbio che è peculiare dei laici. Per quanto mi riguarda, come potrei abbandonare il dogma e la salvezza rappresentata dal Corpo di Cristo?».
Come mai allora, a quanto si mormora, adesso sta studiando di trasporre in teatro un altro conflitto, quello tra Innocenzo III fautore di un pontificato d'assalto e Francesco d'Assisi, il santo della rinuncia di cui quel papa approvò la regola?
«Perché a mio avviso non c'è contraddizione tra l'integralismo dell'anima e l'umiltà del cuore. Basta interpretare coerentemente i fatti. Come fa sempre Schneider, l'autore che oggi occupa i miei pensieri, con un altro dramma che investiga a fondo su questa contraddizione in termini».