Cultura e Spettacoli

Una cavalcata dai celti sino al progressive. Torna il rock alternativo dei Porcupine Tree

Il loro "Closer/Continuation" è un disco caleidoscopico e sorprendente

Proporre al pubblico qualcosa di fresco è l'ossessione di ogni rock band longeva. Come i Porcupine Tree, gruppo «post-prog», tra vagiti hard, aneliti cosmici e improvvisazione. Steve Wilson, il fondatore, è chiaro: «Il nostro è il genere Porcupine Tree. Sono cresciuto ascoltando Donna Summer, Brook Benton, Sam Cooke, e ho introiettato il modo di cantare dei vocalist neri. Alle medie, ho colto con fastidio l'esistenza di tribù musicali interessate a un solo genere ». Richard Barbieri è convinto di una cosa: «Il disco nuovo contiene l'intero spettro delle nostre influenze. Un po' come succedeva ai Genesis nei loro album».

A 12 anni dall'ultima fatica, la band torna con un album nuovo dal titolo sibillino, Closer/Continuation (Music for Nations), anticipando una lunga tournée autunnale. La scelta artistica di Wilson, Barbieri e Gavin Harrison è eclettica e, se certi rimandi stilistici balzano all'occhio, il ventaglio delle influenze è talmente ampio che la risultante è un caleidoscopio sonoro. Barbieri è convinto che sia «un disco riuscito perché, per la prima volta, abbiamo potuto fare le cose in libertà, senza pressione o aspettative. C'è grande equilibrio tra i nostri gusti musicali, spesso agli antipodi». Steven Wilson gli fa eco. «Nessuno sapeva che avremmo fatto un disco. Abbiamo spezzato una routine che per anni ci aveva visti passare da un disco all'altro, iniziando a incidere l'album nel 2013, in un periodo che ha visto succedersi una serie di disastri globali: Brexit, presidenza Trump, pandemia, guerra. Tutte cose che impattano sulla nostra musica. Il segreto di una grande band è l'atteggiamento di serendipità. Per noi significa cercare quel piccolissimo ma fondamentale spazio in cui le nostre diverse sensibilità collimano.»

Closer/Continuation si apre con Harridan, che mostra immediatamente la via, un percorso allitterato in perfetto stile Porcupine Tree: poliritmia a sostegno di una vena canora che manifesta gli ascolti di Steven Wilson, compreso tanto blues, con la voce filtrata a suggerire inevitabili rimandi al Peter Gabriel dei Genesis. Harridon, giusto per non lasciare dubbi all'ascoltatore, si chiude in crescendo, con un finale hard rock lasciato all'improvvisazione. Of the new day è una ballata di sapore celtico, sostenuta da una semplice melodia che, come ci si potrebbe attendere, non è priva di spunti anomali, geniali. Le chitarre pulsanti della coda preludono al brano successivo, Rats Return, uno di quelli più marcatamente prog, al punto che si ha davvero la sensazione di fare un viaggio a ritroso nel tempo. È proprio l'imprevedibilità a fare dei Porcupine Tree un ensemble intrigante. Scostamento più drastico dal brano seguente non potrebbe esserci. Dignity, infatti, sa di certe melodie del Graham Nash dei CS&N. Nash era inglese come Wilson che, evidentemente, ha fatta propria la lezione del cantante di Manchester e, ancor più, della band del suo ex-amico fraterno David Crosby, i CPR. Herd culling è un mélange prog di folk, sperimentazione jazzrock e sonorità quasi hard. L'unico pezzo che io trovi poco interessante è Walk the Plank, ma la qualità torna ad alzarsi con Chimera's Wreck, una cavalcata di dieci minuti che prelude alla forza live della band. L'incidere è ritmicamente allitterato e dal vivo Gavin Harrison sarà libero di scatenare la sua tecnica e la sua creatività.

A questo punto, vederli in concerto a Milano il 24 ottobre è un must.

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