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Celant? Un grande della critica tutto curiosità e intransigenza

Vittorio Sgarbi racconta il suo rapporto con il curatore che ha incarnato la rivoluzione italiana dell'Arte povera

Lo storico e critico d'arte Germano Celant
Lo storico e critico d'arte Germano Celant

Sono certo che, se fossi morto io, lui non scriverebbe di me. Mi riferisco a Germano Celant, scomparso ieri, a 80 anni, dopo una lunga malattia ma, senza pudore, messo nel conto dei morti per Coronavirus.

Certo che era più grande di me, lo avevo conosciuto nel 1970, quando lui aveva 30 anni e io diciotto. Era venuto a Bologna, nel pieno della contestazione studentesca per parlare, in un convegno alternativo, di Arte povera, ed era antropologicamente diverso da noi, studenti, nelle contraddizioni del movimento che, in lui, sembrava incredibilmente metabolizzato, come se facesse parte della sua più profonda natura umana. Vestiva di nero, con giacche e pantaloni di pelle e aveva i lunghi capelli neri annodati in una coda. Il suo nome, l'idea che avesse già fatto qualcosa di memorabile, che lo rendeva un riferimento autorevole, ci veniva dalla considerazione del nostro incomparabile maestro, così diverso, così lontano da lui: Francesco Arcangeli.

Critico e storico della generazione precedente, era nato nel 1915, Arcangeli aveva una sua idea dell'arte contemporanea che si incrociava con la grande testimonianza dei pittori americani dell'Action Painting, in particolare Pollock. Arcangeli li chiamava «Ultimi naturalisti», quanto a dire ultimi romantici. Erano Ennio Morlotti, Pomponio Mandelli, Mattia Moreni, Sergio Vacchi, Sergio Romiti, Vasco Bendini. Una generazione perduta. Celant invece, negli stessi anni, era stato il riferimento di un gruppo più fortunato, più agguerrito, e in più stretto rapporto con la società, nella critica radicale al Capitalismo: gli esponenti dell'Arte povera,la cui base era nella città più industriale d'Italia, Torino. Boetti, Fabro, Kounellis, Paolini, Pascali e Prini, esposti per la prima volta nella città di Genova alla Galleria La Bertesca. E, nel fatidico 68, proprio a Bologna, alla Galleria de' Foscherari, dove si aggiunsero Anselmo, Penone,Ceroli, Merz, Piacentino, Pistoletto e Zorio.

Celant, che aveva preso il nome del movimento dal teatro di Jerzy Grotowski, ne aveva identificato il carattere costituente «nel ridurre ai minimi termini, nell'impoverire i segni, per ridurli ai loro archetipi». Emblematica la Scultura che mangia di Giovanni Anselmo, formata da due blocchi di pietra che schiacciano un cesto di lattuga, il cui destino inevitabile è deperire. L'opera non è più unica e irripetibile, ma è prima di tutto un concetto. Così prove capitali di Michelangelo Pistoletto come La venere degli stracci e, oggi, Terzo Paradiso.

Nessun dubbio che Celant colse un aspetto essenziale della ricerca di quegli anni, e non ebbe rivali per rigore e comprensione del rapporto necessario fra arte e società, dopo Burri, Fontana e Manzoni. Lo capisco meglio oggi. Anche perché, dopo quel primo incontro, io coltivai un'idea di arte contemporanea che era estranea sia alla linea indicata da Arcangeli (che, tra furori e fervori, si consumò con la sua morte e nei paradossi dei più eccentrici rispetto al gruppo iniziale: penso all'imprevedibile evoluzione di Moreni e di Vacchi, perduti in sentieri fuori dalla storia), sia a quella indicata da Celant, caratterizzata dalla coerenza incorruttibile e ostinata degli artisti poveri : penso soprattutto a Paolini, Kounellis, Anselmo, Penone, Zorio. Anche in quel mondo si differenziarono alcuni fantasisti, come Boetti e Ceroli, autonomi rispetto ai puri. Nella coerenza dell'impegno artistico e critico c'era qualcosa di religioso oltre che di rigoroso. Come un culto laico di un'estetica necessaria , senza cedimenti. Io, a fianco degli studi di arte classica, alla fine degli anni 70, mi occupai, con spirito di rivalsa, di quella che chiamavo «Arte segreta»: maestri solitari ed isolati che avevano scelto strade opposte e solitarie e capricciose, rispetto agli artisti affermati e consacrati, come fu subito per l'Arte povera. Nella generazione dei nati tra il 1920 e il 1940, durante gli anni della dittatura delle avanguardie, si erano affacciati artisti irriducibili a qualunque disciplina di gruppo: Gustavo Foppiani, Gaetano Pompa, Carlo Guarienti, e anche alcuni parenti di artisti riconosciuti: Giovanni Penone, fratello di Giuseppe; Silvano Girardi, fratello di Piero; Romano Parmeggiani, fratello di Tancredi. E poi ancora Gianfranco Ferroni, Piero Guccione ,Giancarlo Vitali, Domenico Gnoli, e molti altri. Con il tempo, mi sembrò che identificare questa storia sommersa fosse più giusto che accettare percorsi già tracciati, e comunque consolidati attraverso le garanzie del mercato.

Il destino e la scelta critica di Celant si allontanavano sempre di più, ma la conferma, del tutto imprevedibile, fu nel 1980, quando un altro critico, Luigi Carluccio, alla direzione della Biennale di Venezia, decise di rimettere al centro, nella babele delle lingue delle avanguardie, la pittura. Fu come un'apparizione: il pittore era Balthus, fino a quel momento sconosciuto in Italia da cui pure aveva tratto la sua ispirazione: Piero della Francesca, Masolino, Beato Angelico. Un mondo sommerso riemergeva. Fui io a indicare a Balthus il luogo più adatto alla mostra:la Scuola di San Giovanni Evangelista, mai prima di allora utilizzata. A fianco di Balthus si affacciavano finalmente altri grandi maestri isolati: Lucian Freud, Antonio Lopez Garcia, Andrew Wyeth, Werner Tubke, Odd Nerdrum. Un mondo misterioso chiedeva di essere riconosciuto. Nel 1983, continuando il percorso di Carluccio , scrissi la prima grande monografia su Domenico Gnoli, pubblicata da Franco Maria Ricci. Non potevo immaginare che sarebbe stato il punto estremo di congiunzione con Celant. Sarebbero passati molti anni, avremmo continuato a guardarci a distanza, tra considerazione, polemiche e ammirazione. Si trattava veramente di mondi distanti e incomunicanti, ma io continuavo a vedere in quell'uomo,che rimaneva integro e si incanutiva armoniosamente, valori ammirevoli di rigore e di coerenza.

La sua credibilità si era consolidata, in America ,con la mostra Italian Metamorphosis 1943-1968 al Guggenheim Museum. Nel 1997 toccò a lui dirigere la Biennale di Venezia. Negli anni successivi la nostra pacifica convivenza, nella sua naturale egemonia, si incrinò nella polemica sull'eredità critica di Gino De Dominicis, un altro grande artista isolato e in balia di cattivi maestri(non lui che ne sarebbe stato un ottimo interprete). Non reagii; ma i nostri rapporti a distanza si congelarono. Successivamente ci misurammo sull'Expo di Milano , lui con la mostra, locupletatissima, Art & food alla Triennale , io nel padiglione Eataly. Ma ebbi modo di apprezzarne la curiosità e l'intransigenza,anche extra moenia ,nel 2018 , nella mostra Post Zang tumb tuum. Art Life Politics : Italia 1918-1943,per la Fondazione Prada. Con la ricostruzione di ambienti espositivi originali, di impressionante evidenza ed efficacia. Saremmo così arrivati al momento della riconciliazione, quando ci incontrammo a Milano per presentare la mostra da lui curata al Mart di Rovereto, di cui io sono il Presidente. Una mostra importante dell'artista americano Richard Artschwager, una produzione condivisa con il Museo Guggenheim di Bilbao. Fu in quell'occasione che ci parlammo a lungo, e per l'ultima volta, con grandissima serenità e qualche rimpianto (più mio che suo), ritornando ad Arcangeli,cinquanta anni fa.

E trovandoci con mia massima soddisfazione , ma già lo avevo visto sua mostra qualche anno prima, sulla considerazione per un artista che, morto nel 1970, era sfuggito alla sua attenzione militante, ed egli aveva poi avuto il modo di riconsiderarlo: Domenico Gnoli, oggi l'artista italiano dalle quotazioni più alte insieme a De Chirico. Il segnale di una attenzione internazionale, di cui Celant era consapevole e di cui sarebbe stato titolare anche nel futuro. Infatti, in quella occasione, appresi che il suo prossimo impegno sarebbe stato, ricorrendo il cinquantenario della morte, la mostra di Gnoli per la Fondazione Prada. Avanzai, con l'amico Maraniello, Direttore del Mart, l'ipotesi di farla insieme. Celant , convinto più che mai dell'artista, in una convergenza per me molto lusinghiera, fu evasivo, nonostante che io evocassi anche una terza prestigiosa sede, il Maxxi di Roma. Ora se n'è andato, toccherà a noi onorarlo, avendo trovato, alla fine della sua luminosa vicenda umana, un punto di congiunzione, una idea di contemporaneità condivisa.

La sua era una fede,il mio disincanto.

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