Stenio SolinasCi fu un momento, nella decadenza fisica di Pierre-Auguste Renoir, in cui la luce della guarigione sembrò risplendere. Era il 1912, e da un quindicennio le conseguenze di una caduta dalla bicicletta, con rottura del braccio destro, avevano assunto i contorni della paralisi progressiva, le mani che si deformavano, la parte sinistra del volto immobile, le gambe incapaci di reggere il peso del corpo. Il baldo cinquantenne che era stato, solido e nervoso, aveva ceduto il campo a un settantenne in sfacelo, ma non per questo domo: aveva continuato a dipingere, non aveva mai smesso di dipingere.Quell'anno, dunque, il medico viennese chiamato al suo capezzale dalla tenacia di alcuni amici di famiglia, dopo averlo visitato promise l'impossibile: avrebbe ridato all'infermo l'uso delle gambe. Dopo un mese di cure, Renoir sentì che il corpo aveva preso a rispondere, c'era dentro di lui una nuova forza. Il momento successivo lo vide in piedi, prima sollevato dalla poltrona dal medico, poi lasciato sulle proprie gambe. A un primo passo ne seguì un altro, poi un altro ancora, fino al giro completo del cavalletto da pittore che era stato spostato in mezzo allo studio e poi al ritorno alla poltrona dove la malattia lo teneva inchiodato. Ancora in piedi, disse al medico: «Rinuncio. Questo prende tutta la mia volontà e non me ne resterebbe più per dipingere. Tutto sommato, se devo scegliere fra camminare e dipingere, preferisco ancora dipingere». Si rimise a sedere e non si alzò mai più.Da allora sino alla morte, sette anni più tardi, nel 1919, ebbe inizio quello che suo figlio, Jean Renoir, avrebbe definito «il fuoco d'artificio finale» e di cui il grande quadro Le bagnanti, ora al D'Orsay, è il punto più alto e insieme il compendio: «Dalla sua tavolozza sempre più austera nascevano i colori più straordinari, i contrasti più audaci. Fu come se tutto l'amore di Renoir per la bellezza di questa vita, di cui non poteva più godere fisicamente, fosse scaturito da tutto il suo essere torturato. Era raggiante, nel vero senso della parola. Voglio dire che avevamo la sensazione che dalle carezze del suo pennello sulla tela emanassero raggi. Era come il canto di un uccello che, per ciò che sa del mondo, ha bisogno solo dei suoi trilli».Secondogenito di Pierre-Auguste Renoir, Jean era venuto al mondo poco prima che la catastrofe fisica si abbattesse sul padre. Nella foto di copertina della meravigliosa biografia che gli dedicò (Renoir, mio padre, Adelphi, pagg. 433, euro 22, traduzione di Roberto Ortolani), è al suo fianco, in divisa da ufficiale, convalescente per una ferita alla gamba sinistra un anno dopo lo scoppio della Grande guerra. Il contrasto fra il ventenne in carne e dai primi timidi baffetti, e il pietrificato patriarca dalla barba banca è commovente, ma la bellezza della foto, scattata dal pittore Pierre Bonnard, sta nel lasciare in piena luce l'affusolata mano sinistra del ragazzo e in penombra quella destra del padre, di cui si coglie il pugno rattrappito in cui spicca il bianco di una stoffa. «La pelle gli si era fatta talmente delicata, che il contatto col legno del manico gli procurava ferite. Per evitare un simile inconveniente, egli si faceva mettere un pezzo di tela sottile nel cavo della mano. Le sue dita deformate abbrancavano il pennello più che tenerlo. Ma il braccio gli rimase sino all'ultimo respiro saldo come quello di un giovane e gli occhi di una sconvolgente precisione. Il pennello partiva senza esitare, come la pallottola di un buon tiratore, e colpiva nel segno».Regista fra i più grandi del '900 (La grande illusione, L'angelo del male, La regola del gioco) al tempo di quella foto Jean Renoir non sapeva che cosa avrebbe fatto nella vita, tranne il cercare di non restare ucciso nel conflitto da tre anni in corso. Pilota in una squadriglia di ricognizione, dopo l'armistizio era tornato nella casa di Collettes, in Provenza, per assistere il padre. Lì aveva conosciuto la sedicenne Andrée, una delle modelle di Le bagnanti, che poi sarebbe diventata sua moglie. È facendo l'amore e fantasticando con lei, guardando insieme fotografie e le prime pellicole mute dell'epoca, che gli si aprì il mondo del cinema. Renoir padre non aveva mai cercato di instradare i figli a un mestiere e fino ai dieci anni non li aveva mandati a scuola: «Estendeva le sue teorie dall'individuo alle nazioni, ai secoli, alle generazioni. Attribuiva la prosperità dell'America al fatto che gli americani erano i figli di poveri emigranti e che avevano dietro di sé intere generazioni di antenati analfabeti. Il risultato, ora che hanno delle scuole e che dissodano quelle terre vergini, è sorprendente. Ma i loro pronipoti, dopo due generazioni di genitori istruiti, saranno istupiditi come noi».Per nulla costruito come un saggio critico, Renoir, mio padre è lo straordinario spaccato di una Francia colta nel mutare di un secolo: Pierre-Auguste era nato nel 1841, aveva trent'anni ai tempi della Comune di Parigi, aveva conosciuto l'Impero e la industrializzazione, ma si portava dietro la memoria e l'esempio di chi aveva vissuto l'Ancien régime e la Rivoluzione del 1789. In lui si erano sedimentati gli elementi di un artigianato inteso come piacere del lavoro ben fatto, il disprezzo per l'intellettualismo borghese, il ruolo dell'artista, la sacralità dell'arte, «la mania dei letterati, che non capiranno mai che la pittura è un mestiere e che quello che viene prima sono proprio i mezzi materiali! Le idee vengono molto dopo, quando il quadro è finito!».Nato in un'epoca in cui la natura era ancora parte integrante della vita cittadina, il positivismo scientista della seconda metà dell'800 non lo aveva mai convinto. «Ci dicono che un albero non è che una combinazione chimica. Preferisco credere che sia stato creato da Dio e che sia abitato da una ninfa. Tentano di sopprimere Nettuno e Venere. Ma invano. Venere esisterà in eterno, come l'ha dipinta Botticelli». Nasceva anche da questo la sua ammirazione per la creatività italiana: «Gli italiani avevano inventato i soffitti, le vetrate, le sedie, le forchette, la musica, il teatro, l'opera e tutte le manifestazioni possibili della vita mondana». Dirà al figlio: «L'inconveniente dell'Italia è che è troppo bella. Perché dipingere, quando si trova così tanto piacere a guardare?».Semplice, sbrigativo, con nell'aspetto «qualcosa di un vecchio arabo e molto di un contadino francese», incapace di fare ciò che non gli piaceva, il Renoir senior raccontato dal Renoir junior è un odiatore del progresso, un adoratore delle donne, un appassionato della diversità della vita.
A un visitatore che gli vantava le virtù di un cognac che, in ogni bottiglia, manteneva le stesse qualità, evitando così qualsiasi sorpresa, risponderà: «Che bella definizione del nulla». E dietro la risposta tranchant, «dipingo con il c...», data a un giornalista che gli chiedeva come potesse farlo, con quelle mani deformate, c'è semplicemente il miracolo della trasformazione della materia in spirito.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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