Chi sale sulla giostra di Paolo Ventura si diverte (e impara) come un bambino

Teatralità, ironia e ricerca storica in una rassegna che affascina grandi e piccoli

Chi sale sulla giostra di Paolo Ventura si diverte (e impara) come un bambino

Paolo Ventura ci piace perché è un artista che marcia da solo. Subito riconoscibile e inconfondibile per stile, linguaggio, narrazione, gli si fa un torto a definirlo fotografo, tranne per il fatto che usa la fotografia come un pennello, una scultura, una scenografia, apparentandosi così ai modi della Staged Photography in voga dagli anni '80 ed esatto contraltare dell'istantanea e di quell'immaginario della realtà secondo cui chiunque sarebbe in grado di scattare e produrre immagini. Nessun danno, insomma, per Ventura se non esistessero Instagram e gli altri social.

Camera, il centro d'arte per la fotografia di Torino che ha appena compiuto cinque anni di attività, gli dedica una mostra imperdibile che sarà in scena fino all'8 dicembre, curata dal direttore Walter Guadagnini in collaborazione con Monica Poggi. Non a caso il riferimento al teatro: Ventura ha utilizzato lo spazio come un palcoscenico, disegnando sala per sala il percorso espositivo che ripercorre i momenti salienti di quindici anni di carriera, con grandi scritte a mano sui muri a raccontare passioni, ossessioni, travestimenti e divertissement. E il corsivo ha un lato sentimentale non trascurabile.

Già, perché «Carousel», questo il titolo, è prima di tutto una mostra molto divertente, una rarità nell'arte contemporanea. Fa sorridere anche quando racconta la guerra, il fronte, le macerie del primo Novecento. Comico e grandguignolesco, Ventura ama travestire se stesso e i suoi famigliari - il fratello gemello che è la sua esatta copia, la moglie, il figlio - facendo loro interpretare maschere, personaggi circensi, soldati, anonimi bottegai, improvvisati maghi. Tutti i misteri del suo lavoro sono svelati in mostra: i modellini, le maschere, i costumi, i set rigorosamente realizzati in casa, con perizia artigiana e tanto, tanto tempo da perdere. Un'arte controcorrente nel 2020, oppure talmente fuori dal tempo da non sottoporsi alla tirannia del gusto.

Nato a Milano nel 1968, Paolo Ventura ha cominciato come fotografo di moda, ha vissuto dieci anni a New York prima di tornare in Italia, e poi scegliere di andare a vivere ad Anghiari, vicino ad Arezzo, perché ama la quiete della provincia e perché nel grande studio può inventare mondi che altrove farebbe fatica a creare. Tra i suoi lavori non vanno dimenticate le scenografie per l'opera lirica: proprio al Teatro Regio di Torino nel 2017 allestì I pagliacci di Ruggero Leoncavallo: uno stile che si presta alla visionarietà tipica del melodramma italiano.

La mostra non è un'antologica vera e propria, nel senso che le opere così ripensate appaiono nuove. Due sono comunque i progetti inediti: Per grazia ricevuta, ovvero la sua versione dell'ex voto, e La gamba ritrovata, risultato della residenza presso gli Archivi dell'ICCD a Roma che si sofferma sulle origini della fotografia ottocentesca. In effetti proprio la mentalità archivistica, insieme alla propensione al bric-à brac e all'utilizzo camuffato dell'immagine elettronica come se questa non esistesse, regalandoci un effetto vintage a partire dai colori, dalle luci, dagli ambienti, ci sembrano ingredienti di non comune potenza visiva.

Il risultato lo ottiene meglio quando tende a riempire di particolari e dettagli, un po' meno quando ricorre al collage su superfici più vuote, perché risultano lavori frettolosi. Ma è proprio un voler cercare il pelo nell'uovo. La mostra di Paolo Ventura è consigliatissima, una visita per famiglie. L'arte raramente ci pensa e invece servirebbero come il pane progetti così autentici e inclusivi.

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