Cultura e Spettacoli

Franco Nero: "Ci vorrebbe un Django per sistemare le cose nel mondo del cinema"

Il volto del primo spaghetti-western, a 72 anni sta per girare il terzo atto di una lunga saga: "Quel genere di film sosteneva tutta l'industria"

Franco Nero: "Ci vorrebbe un Django per sistemare le cose nel mondo del cinema"

Django vive! E rimonta a cavallo per iniziare le nuove generazioni al culto del pistolero laconico e vincente, che nel 1966 lanciò Franco Nero. Quando il regista Sergio Corbucci ordinava ai cameramen d'insistere sui magnetici occhi blu di Francesco Sparanero da Parma, star internazionale classe 1941, oltre 150 film in una carriera eclettica. Però fu Django, nobile antieroe, generatore d'una trentina di titoli, a rendere iconico il magnifico attore. «Con quello sguardo, farò un sacco di soldi!», diceva Corbucci. E se Quentin Tarantino, 14enne quando Nero fece furore con lo spaghetti-western di culto, l'ha voluto in un cammeo di Django Unchained, ispirato al film di Corbucci, adesso tocca a Django Lives! ovvero al capitolo finale della storia: Franco Nero, 72 primavere e spicci, seduttività intonsa, si appresta a girare nello Utah il sequel del padre di tutti gli spaghetti-western. In un'operazione intelligente, sull'onda del rilancio tarantiniano del genere, la casa produttrice texana Point Blank Pictures s'è assicurata i diritti di Django. Affidando a Joe D'Augustine, montatore di fiducia di QT (ha editato Bastardi senza gloria e i due Kill Bill) e supervisore del restauro de Il Buono, il Brutto, il Cattivo di Sergio Leone, la regia d'un film che ci voleva. Con 5 milioni di dollari di budget si chiude una trilogia: dopo Django, nel 1987 Nero girò Django 2. Il grande ritorno di Nello Rossati (pseudonimo: Ted Archer). Scritto da Eric Zaldivar e Mike Malloy, cultori dei film d'azione dei Settanta, Django Lives! si ambienta nel 1915, all'epoca del muto: nel cast, Noah Segan, Mark Boone jr e Thomas Milian. Un ritorno definitivo. Con l'egida del clan tarantiniano, ma soprattutto con lui, il cowboy titolare.

Nei panni di Django, cinquant'anni dopo: che cosa farà, stavolta?
«Il consulente d'una casa di produzione cinematografica di western muti. Siamo nel 1915 e, all'epoca, eroi del West come Wyatt Earp e Buffalo Bill venivano ingaggiati dall'industria del cinema, come esperti, per rivedere le scene d'azione, o suggerire contesti. Il mio Django è avanti con gli anni, ma andrà incontro a molte disavventure».

Non si limiterà a stare dietro alla scrivania?
«Inizialmente sto a guardare cosa combina una banda di violenti nel villaggio in cui vivo. Gente influenzata dal western radicale di Griffith, Nascita di una nazione. Ho uno strano rapporto d'amicizia con un giovane regista, indebitato fino al collo. Quando gli strozzini lo fanno fuori, i suoi debiti vengono trasferiti a me. Fuggirò in un altro villaggio, i cui abitanti hanno i loro problemi. Django deve risolvere i conflitti. E si vendicherà».

Che dice a chi storce il naso pensando che a 72 anni è dura fare il bastardo a cavallo?
«Credo d'essere l'unico attore che ha lavorato con il cinema di tutte le nazioni. Ho fatto film con registi brasiliani, australiani, ho girato in Messico, Spagna, Germania, Svezia... E ancora lavoro e mi diverto. Un privilegio, che però mi conquisto ogni giorno. Faccio sport e sono sereno».

Dal 1966, il personaggio di Django l'ha accompagnata per tutta la carriera. Un bene, o un peso?
«Forse mi ha perseguitato, agli inizi: ovunque andassi, mi chiamavano Django. Quando facevo thriller politici, dicevano: “Django contro la mafia”... Mi registravano così anche negli alberghi. Peccato che oggi, da noi, non si facciano più quei film, che aiutavano l'industria. Producevamo 400 pellicole l'anno e i produttori, guadagnando con i film di genere, reinvestivano i soldi in progetti più artistici. Sparite pure le coproduzioni. E intanto le sale chiudono».

Inizierà le nuove generazioni anche al culto di Dante. Ci parla del film Il mistero di Dante di Louis Nero, che lei ha prodotto?
«Non è un caso se il film esce a San Valentino: il grande poeta fece parte del gruppo iniziatico fiorentino “I Fedeli d'Amore” e sarebbe bello trasmettere ai giovani il fascinoso mistero dantesco. Affiancare il mio lavoro d'attore a quello di produttore è la mia mission: m'interessa aiutare i giovani autori a crescere. È il quarto film che faccio con Luis, da produttore, e se ne profila un quinto, dove farò l'attore. Parlare d'un personaggio come l'Alighieri è una sfida. Col prezioso contributo del premio Oscar F. Murray Abraham, dell'amico Valerio Massimo Manfredi e del Maestro Franco Zeffirelli - colgo l'occasione per fargli gli auguri: a breve compirà 91 anni! - cercheremo di parlare alla nuova generazione dell'amore che la mia generazione ha nutrito per questo grande del passato. Il film stupirà. Abbiamo molto interesse per le vendite all'estero».

Vivendo tra Roma e l'America, segue il cinema italiano?
«Cerco di seguirlo il più possibile, anche se sto più spesso in America, con i miei nipoti. Ma sono affezionato al modo di fare cinema d'una volta.

Oggi si fanno solo commediole di poco spessore».

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