Cultura e Spettacoli

"Ci vuole un altro Lombroso per scavare nel lato oscuro"

Nel thriller "Gli scomparsi", il nipote dello studioso indaga su un ragazzo spuntato dal nulla, forse rapito

"Ci vuole un altro Lombroso per scavare nel lato oscuro"

«Il male è la sua ossessione», dice il sottotitolo di Gli scomparsi (Rizzoli, pagg. 398, euro 19), primo thriller di Alessia Tripaldi, sociologa e sceneggiatrice, la quale, in effetti, proprio come il suo protagonista, sembra molto appassionata al nostro lato più inquietante: «Fin da piccola chiedevo di leggere o guardare storie horror, sono sempre stata attratta da questa metà oscura dell'essere umano. È proprio una passione, anche se potrebbe sembrare ambigua...». Nel suo romanzo d'esordio si addentra nel mondo dei rapimenti di bambini: un giorno, in un commissariato abruzzese spunta Leone, un ragazzo selvaggio e magrissimo, che porta la polizia a scoprire il cadavere di suo «padre», con il quale viveva nei boschi. Al commissario Lucia Pacinotti non resta che andare a Torino e cercare l'aiuto di Marco, suo ex compagno di Criminologia, ex amico, ex forse qualcosa di più, di cognome Lombroso, proprio quel Lombroso, Cesare. Dal quale pare avere ereditato, oltre all'Atlante dei criminali, l'intuito per indagare il male.

Come le è venuto in mente un protagonista che è il pronipote di Lombroso?

«Nelle mie ricerche sono stata subito affascinata da Lombroso, proprio per la sua ambiguità. È odiato per la teoria dell'atavismo, ma ha avuto intuizioni moderne e brillanti».

Che cosa è più moderno?

«È possibile ridurre gli esseri umani in categorie, in base ad attributi psicologici, e non fisici? Questa domanda, per me, è da indagare».

Marco Lombroso risponderebbe di sì.

«Lui sì, per me la risposta è meno ovvia, è un dibattito attuale, nature versus nurture, natura o cultura, ovvero, se ci sia una predisposizione fisica, nel senso di neurologica o genetica, non fisiognomica, al crimine».

Il «suo» Lombroso etichetta le persone, anche mentre beve un cappuccino al bar.

«Per me le etichette sono affascinanti, ma pericolose. Non a caso a un certo punto lui sbaglia, nel tentativo di far quadrare queste classificazioni in assoluto».

Qual è il «metodo Lombroso»?

«Lombroso, Cesare, classificava gli esseri umani in base agli attributi fisici, così mi sono chiesta: come potrebbe funzionare oggi questo modello? In base a profili psicologici. Esistono degli schemi di comportamento che ci accomunano? Siamo prevedibili?»

Lo siamo?

«La chiave interpretativa per me sono gli archetipi di Jung, con i loro nomi evocativi di qualcosa di ancestrale, che ci accomuna e predetermina tutti, pur non riuscendo a spiegarci appieno. Ho preso il lato ombra di ciascun archetipo, il suo difetto fatale, e ho immaginato che i criminali siano l'espressione psicotica di questo lato ombra».

Archetipi: l'Angelo custode, l'Innocente, l'Orfano, l'Amante. Funzionano?

«Io sono una terrena e materialista, ma credo siano uno spunto di riflessione interessante per la scoperta di sé».

Marco Lombroso dice che le persone si sentono offese dalle classificazioni, perché ciascuno si sente così originale... Categorizzare, oggi, è quasi un insulto?

«In generale, come specie ci prendiamo troppo sul serio. Siamo così giovani e abbiamo fatto così tanti danni... Non dovremmo esagerare la nostra complessità: i nostri istinti primari, quelli che ci spingono ad agire, sono gli stessi da millenni».

È un romanzo nero, angosciante.

«Me lo dicono tanti miei amici, soprattutto chi è genitore. Non è una narrazione leggera perché non lo è l'argomento, e dovevo andare fino in fondo, anche se ho cercato di evitare il turbamento gratuito. Mi è capitato di censurarmi».

Ma perché ha scritto un libro così cupo?

«Il punto di partenza era la volontà di indagare i comportamenti criminali psicopatici, il primo dei quali è il serial killer, ma se ne è già detto così tanto. Avevo letto molto di rapimenti, in particolare di alcuni casi che mi avevano turbato: il rinchiudere al buio, il costringere in catene qualcuno per il gusto di togliergli la libertà, sono atti che sembrano proprio esprimere il lato ombra».

Un caso in particolare?

«Nel 2011, in Germania un ragazzino sbucò dal nulla e disse che viveva nei boschi col padre morto; poi si scoprì che era un mitomane, ma io mi sono chiesta: e se quel padre ci fosse stato davvero?».

Lombroso è ancora così attuale?

«Chi oggi sostiene sia il male, si confonde. Ha fatto e detto cose agghiaccianti, sulla teoria della razza, ma ha presente la serie Mindhunter? Nel primo episodio c'è un professore che dice: Poi è arrivato Lombroso, e ci ha tirato fuori dal Medioevo. Sono rimasta stupita, perché in Italia verso di lui c'è un atteggiamento denigratorio e ostile, ma Lombroso è il padre della criminologia, il primo ad aver capito che le persone sono diverse, agiscono in base a motivazioni diverse e vanno punite in modo diverso. Credeva molto nel reinserimento sociale».

Però il cognome Lombroso, anche nel romanzo, suscita sdegno.

«C'è un eccesso di pregiudizio nei suoi confronti, che fa sorridere, visto che proprio a lui si muovono accuse di pregiudizio; e c'è forse, anche, una mancanza di conoscenza di quello che disse, e della sua modernità, pur nei limiti del pensiero positivista, che non lasciava spazio a dubbi o incertezze».

Il nipote è più incerto?

«È abbastanza certo, ma la nostra è l'epoca dell'incertezza, una figura così sicura del proprio credo sarebbe stata fuori luogo».

Nel «metodo Lombroso», quanto conta Jung?

«Ha lo stesso peso. Lombroso e Jung si incontrano idealmente in questa teoria: uno è uno scienziato che, in quel momento, cerca la chiave per catalogare gli esseri umani; l'altro è uno psicanalista che, più o meno negli stessi anni, crea dei modelli per classificare gli esseri umani. Per me è un incontro naturale».

Lombroso andrà avanti a indagare?

«Non lo so.

Però ci sono altri archetipi, e i personaggi hanno ancora molto da imparare su loro stessi».

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