«Il cinema senza idee favorisce Netflix»

La «maestra» degli sceneggiatori hollywoodiani: «La tv teme le sfide»

Ferruccio Gattuso

Saper ascoltare, coltivare un'idea con pazienza. Andare in profondità e trattare i temi difficili con rispetto. Perché chi sa argomentare, sa raccontare. Un compito nobile, oggi, nel medioevo del tweet usato come il martello di Thor. Si è scelta un bel compito Bobette Buster, script consultant a Hollywood, tra le menti più acute quando si tratta di spiegare cosa sia una storia e come la si possa trasformare in una sceneggiatura. Lavorare nello showbiz, formare sceneggiatori, ben sapendo che l'idea deve essere buona, popolare e, come no, produrre denaro. Perché Hollywood sforna sogni ma questi hanno un costo. Bobette Buster insegna Arte della narrazione cinematografica alla University of Southern California, collabora con Disney, Pixar, Sony e Fox, è docente del Master in International Screenwriting and Production dell'Università Cattolica di Milano ed è da poco passata da Courmayeur presso una Summer School per giovani autori dell'industria audiovisiva under 35.

Signora Buster, com'è stata l'esperienza a Courmayeur?

«Ho incontrato giovani di talento, menti capaci. Per loro si tratta solo di avere metodo: avere la giusta tecnica nel creare sceneggiature. Anche se poi, a essere sinceri, non basta solo quella».

Vale a dire?

«Si deve riuscire a far conoscere le proprie storie. E serve la volontà di produttori e canali tv di dare alla gente nuove storie. Sono le storie a creare spettatori, e sono questi ultimi che i pubblicitari vogliono. Ma i canali televisivi temono le sfide, preferiscono investire su prodotti sicuri».

Lei ha lavorato con registi come Tony Scott e il giovane Quentin Tarantino. Riconobbe subito in lui il talento?

«Quentin? Un ragazzo affamato di cinema, viveva nei videostore, divorava film d'azione di Hong Kong e della Nouvelle Vague. Talento unico per i dialoghi, capacità di ascolto: attento ai discorsi della gente marginale, ne restava affascinato. Sin da subito la sua voce d'artista era limpida, gli serviva solo la tecnica».

Oggi le serie tv si confrontano con il cinema: cos'è cambiato nel pubblico?

«Non penso che c'entri il pubblico. Tutto nasce da un business degli studios: creare franchise di genere sci-fi è più redditizio. Si tratta di prodotti che si piazzano meglio sul mercato globale, dove spettatori maschi sui 15-35 anni chiedono effetti speciali. Questo relega i migliori sceneggiatori ai margini».

Che approdano in tv...

«Non potendo scrivere per il cinema, dove vanno? Da qui nasce l'età dell'oro della tv e di Netflix e Amazon. Ora l'audience è sopraffatta da troppi titoli, ma la qualità è buona, pensi a Breaking Bad, Madmen e Il Trono di Spade».

Lei ha realizzato un documentario Making Waves: The Art of Cinematic Sound, quando uscirà?

«Per il momento non ne parlo, sono superstiziosa. Intervisto registi come George Lucas, David Lynch, Ang Lee, Sofia Coppola. Racconto la storia dei grandi sound editor, personaggi come Walter Murch o Ben Burtt, che costruì il mondo sonoro di Star Wars. Fu lui a inventare il linguaggio di Chewbecca».

Saper offrire una storia è una forma di potere. Alcuni la usano per produrre fake news: come difendersi?

«I social media hanno abituato la gente a urlare.

Twitter è lo specchio di una società aggressiva. La democrazia è condivisione di idee e capacità di ascolto. Dalla mancanza di ascolto fioriscono le fake news. Penso che l'unico antidoto sia riflettere sulla plausibilità delle notizie che leggiamo».

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