Cocteau, un'esistenza folle finisce in commedia

Cannes. «La giovinezza ha altri compiti rispetto al morire. Eppure gli eroi muoiono sempre giovani». Jean Cocteau non era un eroe, e infatti morì vecchio, ma dei giovani, della giovinezza, della sua crudeltà e della sua bellezza fu nella Francia fra le due guerre il mito assoluto, dinamo e insieme recettore. Fece da padrino al fragile Raymond Radiguet, lanciò l'infido Maurice Sachs, fu amico di Paul Morand, sodale di Tristan Zara, costeggiò tutte le avanguardie e fu fedele in fondo soltanto alla propria immagine. Arielle Dombasle ne ricostruisce la vita in Opium, un film elegante e intrigante, presente nella sezione «Cannes Classics», in occasione del cinquantesimo della morte dell'artista.
Costruito come una commedia musicale, avendo come testo sempre e soltanto ciò che Cocteau scrisse in romanzi, sceneggiature, poesie, lettere, pièces teatrali, Opium ricostruisce in modo originale, fedele nello spirito, quanto libero nella mise en scène, quell'epoca e lo fa con attori esemplari per eleganza e perfettamente somiglianti a quelle che erano allora figure in carne e ossa: Picasso e Picabia, Brerton e Diaghilev, Chanel...
Grégoire Colin è Cocteau, Samuel Mercer è il suo amante, l'angelo del male Radiguet che morirà ad appena vent'anni e la cui scomparsa farà piombare l'allora trentenne scrittore sempre più nei paradisi artificiali della droga.

«Non è la morte che uccide; lei ha i suoi assassini», dice una delle sue poesie e tutto intorno all'esistenza di questo dissipatore di talenti e di intelligenza ebbe il sapore della bon mot, del paradosso, il nascondere per non svelarsi troppo.

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