Nico Naldini vive in una piccola vecchia casa, all'entrata di Treviso, due locali più sacrifizi, nessuna comodità, nessun comfort, quasi neppure un libro né un quadro. «Non ho nulla, ho regalato tutto». La dignità dell'essenziale. Ma nella sua tana di anacoreta, come diceva lui della casa di Sandro Penna, uno dei tanti amici che non ci sono più, Nico Naldini, 88 anni tra pochi giorni, ha ciò che gli serve. Un bellissimo ragazzo moldavo che lo aiuta nelle piccole cose della vita quotidiana, e i ricordi di tutto ciò che lo ha fatto grande in quella letteraria. Cugino di Pasolini - col quale ha condiviso poesia, amori omosessuali, vita sui set, infanzia friulana e salotti romani - Naldini è più di ogni altra cosa poeta: nel 1948 pubblicò la sua prima plaquette in lingua friulana, voluta proprio da Pasolini. Poi ha scritto bellissime biografie: di Giovanni Comisso, di Goffredo Parise, di Pasolini. Poi ha lavorato nel modo dell'editoria a Milano e in quello del cinema a Roma. Ha scritto versi e amato tantissimo in una casetta vicino Tunisi, dove andava ancora fino a poco tempo fa. E poi ha scritto raccolte di versi erotici riunite nel Piccolo romanzo magrebino (ora riedito da Guanda), e un romanzo autobiografico, Il treno del buon appetito (del 1995, e che riesce oggi da Ronzani editore, con disegni inediti di Pasolini e una grande introduzione di Franco Zabagli). Un libro dove - tra amori, amici, letture e città - c'è tutta la sua vita.
Che vita ha avuto?
«Una vita in cui ha predominato il piacere di vivere. Nei viaggi, negli incontri, nel lavoro culturale, in tutto ciò che potevo conoscere con leggerezza, senza l'ideologia che metteva ad esempio Pier Paolo in tutte le cose. L'unica cosa che volevo, eccola: la joie de vivre».
Si è divertito?
«Il più possibile. Viaggiando e scrivendo».
Il suo viaggio più bello?
«A Berlino, con un amico, nel '56. Il primo viaggio oltre la Cortina di ferro in una città divisa, ma ancora senza il Muro. Era un luogo di macerie, la Germania anno zero di Rossellini, eppure, o forse per questo, tutto era nuovo. Non c'era fine alla conoscenza che potevi fare in quel mondo».
E il suo libro più importante?
«Tutti. Lo so cosa mi vuole chiedere. Se ho amato di più la poesia o i romanzi. Ma non c'è differenza. La tecnica è diversa, sì: nella poesia vige la legge della condensazione dei fatti in una sola immagine, mentre nella narrativa domina il racconto di ciò che appare e dispare. Ma nella sostanza, cosa cambia? C'è differenza tra le poesie e lo Zibaldone di Leopardi?».
I poeti che ha amato di più?
«Ungaretti, che ho solo sfiorato. E Montale, che ho conosciuto bene. Io lavoravo alla Longanesi, che a quel tempo, dopo l'uscita di Leo, pubblicava quasi solo libri di guerra. Anche se sapevo che non gli interessavano, io glieli portavo lo stesso al Corriere della sera, era un pretesto per vederlo. Poi andavo a prenderlo in via Bigli, e lo portavo in giro alla sera. Era un mondano. Gli piaceva frequentare i salotti».
E i romanzieri?
«Moravia. Mi piaceva, sia come scrittore che come persona. Erano gli anni '70. A Sabaudia aveva una villotta, era divisa in due. Da una parte viveva lui, dall'altra Pasolini, con me. Lo chiamavo per invitarlo a pranzo, e lui veniva sempre volentieri».
Mi dica dei suoi amici. Giovanni Comisso.
«Avevo bisogno di qualcuno che mi insegnasse la vita, e la letteratura. Pasolini si contorceva troppo nelle sue ideologie e nei suoi pessimismi. Mi serviva altro. Comisso fu il mio maestro. E mi sono divertito molto con lui. La cosa più straordinaria era il suo rapporto di continua scoperta del mondo: il Piave che aveva di fronte, o i pescatori di Chioggia o un fico maturo da cogliere. Non era lui a cercare ciò che desiderava, era la vita a donare ciò che a lui piaceva».
Goffredo Parise.
«Fu una di quelle amicizie che si decidono in pochi istanti. Ci presentarono, e diventammo amici per tutta la vita. Di lui mi piaceva persino il suo essere scontroso. Non poteva soffrire niente e nessuno, né gli ambienti, né le persone... E lo dava a vedere. Scrisse i Sillabari nella sua casetta sul Piave. Andavo a trovarlo. Lui lavorava in cucina, sotto una finestrella: Da lì mi arrivano le chiacchiere del mondo, sapessi quanto lo disprezzo...., mi diceva».
Dicono che i Sillabari siano il libro più bello del secondo '900.
«Parise è stato in letteratura quello che furono i maestri veneti in pittura: Bellini, Tiziano, Tintoretto... Come un ritrattista metteva sulla pagina le gioie, gli amori, le inquietudini che vedeva attorno a lui».
Pasolini, Comisso, Piovene, Parise, Zanzotto... Un Veneto letterariamente felice... Cos'è il Veneto felice?
«Il mondo cambia in continuazione, passa da un'epoca all'altra, e si lascia indietro rovine e nostalgie. Il Veneto felice è un percorso della felicità, le cui tappe sono gli scritti che Comisso dedicò alla sua terra, un mondo in cui il popolo non era ancora un oggetto politico o uno strumento di rivendicazioni, ma gente semplice, attaccata alle tradizioni, ai valori, al sacro. L'essenza di quella gente consisteva nell'essere contadini o pescatori. Solo riappropriandosi delle proprie radici si può sperare nella felicità. E il Veneto felice è quella civiltà. Che non c'è più».
Era il mondo arcaico, sacro, contadino di Pasolini.
«Anche quello».
Pier Paolo Pasolini.
«Vuole sapere qual era la sua grande forza? Che tutti i suoi interventi - in poesia, nei romanzi, negli articoli, nel suo cinema - erano sempre guidati da un fortissimo senso della realtà. Non per niente Pasolini veniva dalla scuola di Roberto Longhi, il celebratore della pittura della realtà. Lui prendeva un pezzo di realtà, un fatto di cronaca, che fosse l'omicidio del Circeo o la moda dei capelli lunghi, e lo leggeva non dico in chiave universale, che è troppo, ma astraendolo dal contesto, per farne un caso sociale o politico più ampio».
Dicono che di Pasolini resti poco oggi. Solo le cose giornalistiche.
«È una svalutazione della sua opera messa in atto dagli ex della neoavanguardia. Secondo loro Pasolini ha fallito nei suoi romanzi e nei suoi film... Leggessero Il sogno di una cosa... Imparerebbero a scrivere. Pasolini non si può dividere in polemista, poeta o romanziere. È lo stesso uomo, che si esprime con diverse esperienze».
Lei ha sempre escluso che sia stato un delitto politico.
«Fu solo una storia di sesso finita male. Chi dice che dietro ci sono motivi politici o complotti, come Walter Veltroni e il suo giro romano, o chi chiede di riaprire il caso, si deve vergognare. Io conoscevo Pier Paolo, sapevo cosa cercava dai suoi amanti, sapevo che nell'ultimo periodo della sua vita aveva imboccato una deriva sadomasochista. Si faceva legare e picchiare. Quella sera il gioco finì male. Tutto qui. Vidi il suo corpo quella notte, alla morgue di Roma, e capii subito. Aveva aizzato il ragazzino con cui si era appartato, e si accorse troppo tardi del mostro che aveva scatenato».
La cosa più bella che ha fatto con Pasolini?
«Quando un giorno mi portò in Piemonte, noi due soli, nel paese di nostra nonna. Mi disse: Andiamo a ricercare l'origine della nostra sessualità. Sul momento mi sembrò offensivo ridurre l'omosessualità a un fatto ereditario. Invece forse aveva ragione lui: bisogna sbarazzarsi di Freud e di tante sovrastrutture. E tornare alle nostre radici per capire cos'è l'omosessualità».
E cos'è l'omosessualità?
«Una cosa troppo seria per lasciarla al Gay pride».
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