«Tornate all'antico, sarà un progresso» diceva Giuseppe Verdi, uno che se ne intendeva. Nel cinema, come un po' in tutte le arti, è un consiglio che bisognerebbe tenere da conto, soprattutto quando il nuovo latita o non fa in tempo ad apparire che subito appassisce.
Xavier Gianoli, che è un regista solido (Quand j'étais chanteur, Superstar, Marguerite) ha pensato bene di presentarsi in concorso qui a Venezia con un film tratto dalle Illusioni perdute, fra i capolavori romanzeschi di Balzac, e già nel fare il nome di quest'ultimo si capisce che con lui come sceneggiatore c'è pane per almeno un altro secolo di cinematografiaGli ha messo come portata principale un tris d'assi attoriale, Cecile de France, Gerard Depardieu, Benjamin Voisin (il coprotagonista di Estate'85 di François Ozon), e come contorno un raffinato Xavier Dolan e un effervescente Vincent Lacoste, il tutto in una cornice scenografica sontuosa, la Parigi ottocentesca targata anni Trenta, i costumi, i balli, gli spettacoli e le bettole, gli amori, gli onori e gli orrori, ovvero la capitale di una Francia che avendo dimenticato Napoleone ha trovato il suo nuovo impero nel fare i soldi
Il risultato sono due ore e passa di puro piacere estetico, nonché di amare considerazioni su quanto la storia di ieri possa insegnare sul mondo di oggi.
Cos'altro è infatti le Illusioni perdute se non una riflessione sul potere dell'informazione, intesa come un tossico in forma di pettegolezzo, di calunnia, di killeraggio politico, di uso disinvolto della magistratura nonché della polizia? Cos'altro è Illusioni perdute se non un interrogarsi sulla società dei consumi, sullo strapotere della pubblicità, sulla concorrenza senza freni, sulla società liberale e liberista che, come nota uno dei disinvolti editori-giornalisti del film, altro non è che «la libertà di lasciare libera una volpe in un pollaio»?
Storia di un poeta di talento e però di provincia, Lucien de Rubempré, che arriva a Parigi inseguendo il suo amore per una nobildonna e si ritrova stritolato da una città che ne brucia ogni ideale ingannandolo sulla sua possibilità di dettare le regole del gioco, Illusioni perdute racconta anche la competizione feroce, l'invidia, il fare e il disfare delle carriere: per calcolo e insieme per il piacere tipico dei mediocri di infangare tutto ciò che è a loro superiore.
Altresì, è grazie al magistero di Balzac, le cui frasi, le cui battute a effetto caricano il film di una forza verbale senza pari, che si può facilmente cogliere il nocciolo di quella che è divenuta una pratica assolutamente contemporanea, nella stampa cartacea così come in quella veicolata sul web, nei social, nelle chat, ovvero la più totale quanto smodata liceità e/o libertà d'aggressione, il parossismo di ciò che oggi è il cosiddetto giornalista alla moda: l'irridere sui difetti fisici altrui, lo storpiare i nomi, il gusto di ridicolizzare l'avversario, il sentito dire spacciato per certo, il probabile che diventa possibile, il falso autenticato come vero
Affidandosi a una voce narrante fuori scena, pratica che oltralpe, da Guitry a Truffault, è sempre molto amata, Illusioni perdute è il ritratto di un'epoca «fredda, meschina e senza poesia», che non ha bisogno di «anime grandi», dove «si schernivano i ministri che non erano gentiluomini, ma non si forniva abbastanza gentiluomini da diventare ministri», dove la nobiltà è disseccata, la ricchezza è osannata, la gioventù è impotente.
Tutti recitano su un palcoscenico che non è il loro, un palcoscenico dove gli scrittori come de Rubempré vorrebbero inseguire l'arte, ma il mercato chiede loro merce e dove il profitto è l'unico elemento degno d'essere perseguito, la democrazia del denaro che altro non è se non un'aristocrazia mascherata che produce una diseguaglianza senza nobiltà.Vi ricorda qualcosa?
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